sabato 19 novembre 2011

Michel Houellebecq

Michel Houellebecq, Le particelle elementari. (Bompiani)

Mettiamo che ho un po’ più di quarant’anni, ho fatto l’università, ma niente amarcod generazionale, quando sono arrivato io erano già gli anni ottanta.
Sono sposato.
Il mio lavoro (che personalmente mi fa abbastanza venire la nausea, ma mi dà da vivere bene, molto bene) non mi lascia tanto tempo libero (e anche questa del tempo libero, è una cosa che mi fa venire il mal di stomaco quando ci penso, perché il tempo libero è una cazzata anni ottanta, e mi fa venire in mente i tre amici dell’amaro Montenegro che nel tempo libero prendono l’idrovolante e vanno a recuperare l’anfora antica); ma leggere mi piace.
E mi arriva questo libro, se ne è già fatto un gran parlare quando è uscito, lo incomincio e mi piace.
Mi prende davvero tanto questa storia dei due fratellastri separati alla nascita, con la madre hippy, zoccola e miliardaria che li molla al loro destino di orrendo disagio esistenziale. Uno, il figlio dell’intellettuale ascetico che sparisce nelle nebbie himalayane, è lo scienziato super intelligente e anafettivo (tipo Un cuore in inverno ma più tormentato, diciamo tipo più malessere metropolitano) e sta a guardare la vita dal di fuori. L’altro, che è il figlio del chirurgo puttaniere e alcolizzato, è il disadattato, arrapato a oltranza, che da bambino lo abbandonano, da adolescente lo seviziano, e da adulto si fa rinchiudere in un ospedale psichiatrico.
Si parlerebbe di disagio, sconfitta, di come il fallimento generazionale diventi sintomatico dell’impossibilità di recuperare l’individuo a un’esistenza accettabile nel quadro del disfacimento programmatico; di come il Sistema sarebbe la discarica che si fotte le nostre vite e restituisce ologrammi abbronzati e sorridenti.
Vado avanti a leggere e quasi mi sento meno solo, e meno muto perché qualcuno sta dando le parole, le parole giuste a quel sentirmi sempre poco, e male, come da lontano, che non capisco mai se sono rimasto fuori io, o se mi hanno chiuso dentro e sono tutti là fuori a darsi da fare.
Oddio, alla lunga qualche dubbio mi viene.
Da una parte tutto questo sesso, parlato, raccontato, cercato, schifato; un prontuario sgamato che dall’ammucchiata semplice alla partouze sadomaso, non si lascia scappare la strizzatina d’occhio a Freud (vedi l’episodio dell’Edipo Côte d’Azur alle prese con la figa dormiente della madre. E sarà il gatto, in francese la chatte, a lasciarci la pelle. Capito il raffinato calembour?)
Poi i buonismi fioccano sempre più fitti; un po’ alla volta sembra una tormenta.
Vedi questa curiosa sfilata mortuaria al femminile, una celebrazione post mortem delle doti umane superiori di tutte le protagoniste. Eccetto la madre, che comunque muore in un modo orrendo, come esseri superiori, Beatrici dalle carni molto impure, qui le donne si immolano tutte che è un piacere. Che siano delle sante, o che ci diano dentro con il sesso, finisce che o cadono dalle scale e restano paralizzate, o si beccano un cancro fulminante; come che sia ci restano secche, e alla fine non ne rimane neanche una, se non vispa, almeno in discreta salute.
E mi vengono dei dubbi sempre più forti, e quando arriva l’ultimo capitolo i dubbi diventano certezze. 
C’è qualcuno che sa scrivere bene, bene davvero, uno che ha letto Céline e ha mandato a mente le pose e i modi, ha letto Débord e ha mangiato la foglia, e ovviamente ha letto Henry Miller e se lo ricorda tanto bene, e ha imparato che dei Grandi veri non si butta via niente.
Si è messo lì, e ha costruito la sua bella equazione per cui a un potenziale pubblico ragionevolmente colto e benestante, corrisponde un feuilleton a tinte forti e risvolti sociofilosofici, dove la variabile del disagio esistenziale più o meno inespresso corrisponderà all’indice di gradimento di un’operazione editoriale di grande, internazionale successo.
E la virata finale nella fantasociologia, con tanto di intervento di deus ex machina come nelle commedie d’antan, per quanto grossolana, permette di scansare di un soffio l’impasse filosofica senza sporcarsi le mani, lasciando la bestia nera urlante e vischiosa, sotto il tappeto.
Ingannevole più di ogni cosa è il marketing.
Pazienza. La prossima volta che vedo il libro di uno che si fa fotografare con l‘aria dimessa e la cicca di traverso, mi ricorderò che uno che ha l’aria furba, 9 su 10, è un furbo. (Rosa M.)



In questa vita ci mostrano soltanto i trailer. Per questo bisogna reggere. (Philip K. Dick, Un oscuro scrutare)

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