martedì 27 dicembre 2011

Anthony Trollope

Anthony Trollope, L’amministratore. (Sellerio)
Nella mia vita io non credo di avere combinato gran che, e non credo di essere capace di fare niente in nessuna maniera particolarmente buona.
Quindi se fino ad ora posso dire di averla sostanzialmente fatta franca, mi sono sempre considerato e mi considero molto fortunato.
Per esempio ho avuto la fortuna di non essermi mai trovato, per guadagnarmi da vivere, a dover scrivere su un giornale che la saga del Barset di Anthony Trollope è avvincente appassionante coinvolgente allo stesso modo che la Millennium Trilogy di Stieg Larsson dalle cui opere, sempre per una serie di circostanze fortunate probabilmente generate dalle prime letture della mia vita, fino ad oggi mi sono tenuto lontano.
Comincio così il primo post su Trollope perché un mio amico mi aveva dato le due pagine (credo della rivista Sette del Corriere della Sera) di Antonio D’Orrico sullo stesso argomento, e mi sembra necessario, anche se sono ben contento che si inviti comunque alla lettura di questo scrittore, fare una puntualizzazione. O dare un avvertimento ai possibili futuri lettori di Trollope.
Cioè Antonio D’Orrico dice che Trollope è modernissimo, e io credo che di lui si possano dire tante cose, ma non che è modernissimo. In quanto le caratteristiche di Anthony Trollope sono tutto tranne che modernissime.
Mi spiego meglio.
In negativo, per essere modernissimo gli mancano le trovatine spiritose, le descrizioni di scene disgustose, il sesso esplicito, il buonismo, la struttura narrativa evanescente e le incomprensibilità intellettualistiche di molta letteratura moderna.
In positivo, Trollope ha le caratteristiche tipiche del grande romanzo dell’Ottocento, cioè la potenza dei personaggi e la loro reciproca articolazione esistenziale, oltre a una concezione del mondo. Che sono cose che in letteratura sono finite con la fine del grande romanzo dell’Ottocento.
Questo, non perché da allora i grandi scrittori siano meno grandi, ma perché sono cambiati i tempi, e la direzione storica del mondo ha perso ogni finalismo ideologico ottimista, e i grandi scrittori se ne sono accorti da quando questo processo è iniziato, e hanno dato vita a quello che György Lukács in Teoria del romanzo chiama il romanzo della disillusione, smembramento e mancanza di forma, e ripiegamento totale sull’individuo, vedi Samuel Beckett per un esempio, e Michel Foucault e Marc Augé e soprattutto Marshall McLuhan per ulteriore illustrazione del fatto.
O come dice George Steiner qualche anno prima che tutti si mettano a parlare dei minimalisti, forse stiamo andando verso una poesia del silenzio.
L’amministratore è un romanzo abbastanza breve, costruito intorno a un fatto di modesto rilievo, con personaggi che tutto sommato si distribuiscono lungo linee di consistenza esistenziale piuttosto modesta se non addirittura banale, ma la potenza dell’analisi dei comportamenti e dei pensieri e dei caratteri è un colpo di cannone. Cioè 301 pagine di ininterrotte esplosioni di artiglieria.
György Lukács, che peraltro su Anthony Trollope non mi risulta abbia scritto nemmeno una parola, in La fisionomia intellettuale dei personaggi dice che in ogni grande arte è indispensabile rappresentare i personaggi nell’insieme di rapporti che li collegano da ogni parte tra di loro, con la loro realtà sociale e con i grandi problemi di questa realtà. Il che, indipendentemente da tutto quello che si può pensare dell’estetica marxista, è più o meno esattamente quello che fa Trollope in questo romanzo.
A differenza del suo contemporaneo Charles Dickens (e un intermezzo di L’amministratore fa capire che tra i due non correva grande simpatia, così come a Trollope non piaceva nemmeno Thomas Carlyle) Trollope non ci mette lì personaggi colossali e atmosfere forti e ricche di movimento e di luci e di colori, ed esegue su tutto un lavoro di delicatissimo e precisissimo cesello, proprio nel girare intorno e nell’osservare e nel penetrare i rapporti tra comportamento e pensiero ed emozioni, seguiti nelle loro variazioni che si intersecano tra un personaggio e l’altro, in un modo che se può essere accostato a qualcosa, può essere accostato solo alle vette di Jane Austen e alle profondità di Honoré de Balzac. Soprattutto, ulteriore vicinanza a Jane Austen e lontananza da Dickens, ma in questo la vicinanza è soprattutto a Balzac, in Trollope non ci sono buoni e cattivi con relativo seguito di prese di posizione moralisticoeconomiche ma persone realisticamente e precisamente determinate dalle loro caratteristiche di provenienza e appartenenza a classi e categorie sociali.
E se i personaggi di Trollope non sono colossali nella figura, lo sono tuttavia nella definizione personale di tipi caratteriali (potrebbe venire in mente il  Collins di Orgoglio e pregiudizio), che si esprime in ogni gesto e tracima nei nomi e dilaga intorno persino nell’arredamento delle loro case.
Con la capacità di mostrare, per ogni azione, come questa racchiuda in sé conseguenze che la legheranno alle azioni future che questa avrà generato, come susseguenti azioni ineluttabili del soggetto agente, e come susseguenti azioni conseguenti degli altri soggetti coinvolti, in un contesto di vero grande splendore narrativo e in un’ampiezza di visione esistenziale che fa venire in mente le osservazioni di Carl von Clausewitz in Della guerra e il determinismo di Humberto Maturana.
Ovvero, forse Anthony Trollope potrebbe essere considerato un Clausewitz spiegato al popolo. E da questo profondo realismo di Trollope che prende in considerazione fatti e persone e possibilità da punti di vista diversi, deriva come prevedibile conseguenza che L’amministratore non si chiude su un lieto fine alla Dickens. Cioè non succedono veri disastri, ma alla fine tutti si sono fatti abbastanza male e risulta evidente che se si lasciavano le cose come stavano all’inizio, era meglio per tutti. Come capita spesso.
Con l’aggiunta della possibilità di fare una riflessione su come la Chiesa Anglicana fosse in linea di massima interessata solo al denaro e al potere, evidenziandosi in ciò una profonda differenza con la Chiesa Cattolica, che come tutti ben sappiamo in ogni tempo e in ogni latitudine si è sempre mostrata lontana da qualunque tipo di interesse materiale e politico. 
A questo punto non so in cosa mai potrebbe consistere la modernissimità di Trollope. Forse se riuscissi a capire cos’ha in comune con Stieg Larsson lo capirei. Ma Stieg Larsson non mi sogno nemmeno di leggerlo.
Quindi rimango convinto che per nostra fortuna Anthony Trollope sia tutt’altro che moderno.
Come tutti i grandi è semplicemente fuori dal tempo, e ha la rara caratteristica dell’universalità. I grandi di ieri e i grandi di oggi. (bamborino)  
Il solito brutto esaustivo a pag. 35, a pag. 112 box invece di boxe (che mi sa che in inglese era già scritto giusto), a pag. 297 un vestigia singolare invece di vestigio. Ma a pag. 37 c’è un bellissimo braghe e a pag. 115 muffin come plurale.
E se non riuscite a trovare il libro, lo stesso romanzo è stato pubblicato anche da Garzanti nella Collana I Grandi Libri, con il titolo Un caso di coscienza.

Be', si è giovani una volta sola, ma si può restare immaturi per sempre. (Philip Roth, Il teatro di Sabbath)

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