venerdì 17 febbraio 2012

Henry James

Henry James, Ritratto di signora. (Einaudi)
Probabilmente Henry James rappresenta il punto più alto di quella che Marshall McLuhan ha chiamato l’Epoca Tipografica.
Nel senso che in questo romanzo il pensiero si sguscia e si dilata pagina dopo pagina, riga dopo riga, nella verticalità dell’interiorità dei singoli personaggi e nella trasversalità del passaggio e della scomposizione e della ricomposizione di un discorso che prende forma e si articola si espande e torna a contrarsi da un personaggio all’altro. Tutto in terza persona.
Tutto ciò che è detto, è detto da un osservatore, dice Humberto Maturana, e questo è il romanzo dell’osservazione. Perché qui tutto è detto dagli osservatori, che si osservano l’un l’altro, e gli osservatori sono il romanzo, che a sua volta li osserva. La coscienza tipografica presuppone un osservatore, è basata sull’esistenza di un punto di vista distaccato dall’oggetto dell’osservazione, come il lettore è distaccato dal contenuto del libro stampato, che si trova nelle pagine di un oggetto che gli sta in mano e che può trasportare dove vuole con facilità.
Un punto di vista si apre sulla realtà da una certa distanza. Guardandola come un quadro. Come un ritratto, come dice il titolo. 
Ma forse Jane Austen in Emma era già arrivata allo stesso punto.
Ritratto di signora è anche il romanzo della complicazione, sia in noi che in come noi vediamo gli altri. E questa complicanza si manifesta in una storia semplicissima, perché la complicazione delle persone è sempre tremenda anche nelle cose più semplici.
Si potrebbe dire che Marcel Proust non ha inventato niente. Che la sua prima persona onnipresente, rispetto a Henry James, è un passo indietro, un ritorno ai modi del romanzo psicologico del Settecento.
Opinione discutibile, perché Proust è da mettere nel campo di quella riapertura dell’individuo e di quella nuova identificazione tra scrittore e lettore, del superamento della passività del fruitore dell’opera d’arte che appare nel Novecento con il flusso di coscienza, vedi Marshall McLuhan, La galassia Gutenberg.
Quindi ricordando I detective selvaggi di Roberto Bolaño passo nel mio piccolo alla critica letteraria viscerale e decontestualizzata. Facendo presente a tutti che parlare di questo romanzo senza raccontarlo e senza dire come va a finire non è affatto facile. Ma chi l’ha letto capirà, e chi non l’ha letto spero che gli venga voglia di leggerlo perché è bellissimo e vale veramente la pena, che poi non è una pena ma un piacere enorme.
Questa Isabel Archer, la protagonista, che è una povera stronza. Si potrebbe addirittura dire che è una grandiosa epitome della povera stronza. Comincia come una Emma Bovary, ma della Emma non ha né il coraggio esistenziale né soprattutto la voglia di scopare. Isabel (non le riconosco l’articolo alla lombarda perché non se lo merita) parte convinta di essere intelligentissima e capace di conoscere e di capire tutto, si trova intorno una batteria di maschi che siccome è molto bella e affascinante di quel fascino di tutte le stronzette presuntuose, i maschietti le riconoscono queste belle qualità di grande intelligenza, e uno dei maschietti le combina addirittura il simpatico scherzo di darle la possibilità di fare quel che vuole, rendendola ricchissima. In realtà lo scherzo è più pesante di quel che sembra, perché Ralph Touchett trasferisce su Isabel le possibilità esistenziali che lui non ha, perché è tubercoloso e moribondo fin dall’adolescenza. Cioè vivere la propria vita è un paio di maniche, ma vivere la vita di un altro non è detto che sia altrettanto facile.
Così la stronzetta presuntuosa con tutta la sua intelligenza fuori dagli schemi pensa bene che l’unica cosa da fare nella vita sia sposarsi, e siccome lei è fuori dagli schemi rifiuta gli uomini ricchi che in qualche modo la amano e la ammirano e sposa uno stronzo presuntuoso come lei che però è relativamente povero.
Tuttavia anche Gilbert Osmond, il marito, nel suo essere uno stronzo presuntuoso è pur sempre meno stronzo e meno presuntuoso della maxistronza eroina del romanzo, in quanto sa benissimo che tutto il suo modo di vivere dipende dal fatto che è povero e che si dà da fare per stare al livello dei ricchi, e che se avesse avuto più soldi avrebbe fatto ben diversa vita.
Emma Bovary voleva essere diversa da quel che era, Isabel Archer è convinta di essere una gran figata di persona. La Emma si perde nella possibilità dell’essere, Isabel si perde nella convinzione che del proprio essere ha.
E se vogliamo allargarci a fare un piccolo studio del personaggio della povera stronza nella letteratura, mi viene da tirar fuori William Thackeray con La fiera delle vanità in cui quella povera stronza paradigmatica che è Amelia Sedley sa tutto e lo sa da sempre, mentre la Becky Sharp si fa domande dall’inizio alla fine. Comunque anche in Ritratto di signora c’è una Becky Sharp, Madame Merle, che siccome non è ricca e in qualche modo se la deve sfangare, passa più tempo a osservare gli altri che a pensare al meraviglioso contenuto delle proprie mutande, e riesce anche lei come Ralph a trasferire su Isabel una parte della propria vita. Cioè a farle vivere la vita che lei avrebbe voluto vivere. O meglio a usarla, come fanno Ralph e Osmond, per portare a termine i propri progetti.
Ma una povera stronza più povera (anche se è ricca) e più stronza di Isabel Archer secondo me è difficile trovarla. Perché forse è questo il punto del romanzo, che Isabel Archer è una non persona, che in realtà vive le vite di Ralph di Osmond e della Merle, e per conto suo non esiste e non ha vita. Invariabilmente e coriacemente stronza fino alla fine, quando non si sogna nemmeno di riconoscere che ha sbagliato tutto, e non ha il coraggio di cambiare una virgola di quel che fa, nemmeno per dare una mano a Pansy, la sfigata figlia del suo sfigato e stronzissimo marito.
Ho detto che nell’essere un romanzo di punti di vista, Ritratto di signora può essere avvicinato a Emma. Ma se ne discosta perché in Emma ci sono i ritmi ascendenti e le vicende di successo personale di cui parla Marshall Mc Luhan in Gli strumenti del comunicare, del romanzo nell’epoca del trionfo del medium caldissimo della stampa, mentre Ritratto di signora, nel fallimento esistenziale della protagonista, si riavvicina alle storie che erano più popolari nel medioevo, e che raccontavano la caduta del principe.
Ma in realtà in Ritratto di signora nessun personaggio ha una vera consistenza esistenziale, consistenza nel senso di Balzac o di Trollope. Le consistenze qui sono solo le consistenze del pensiero, delle motivazioni, di un fiume di interiorità che passa da un personaggio all’altro, e forse il romanzo è una costruzione meravigliosa e colossale intorno a Isabel che è lei stessa solo pensiero, fin dalle prime pagine bellissima di quelle bellezze che si esprimono nell’imponenza della fissità e nella grazia e nell’armonia ininterrotta del movimento. Ma la bellezza tutto sommato forse esiste solo per apparire davanti agli altri, e così Isabel esiste appunto solo per gli altri, per far vivere gli altri, e nel pensiero di Ralph, di Madame Merle, di Osmond, degli uomini che la amano, della sua amica Henrietta. Così forse diventa un punto di intersezione di quello che Marshall McLuhan e Walter Ong Walter Ong chiamano l’inconscio collettivo.
E forse nel raccogliere da un personaggio all’altro i modi di un possibile inconscio collettivo questo romanzo si trova in un punto di frattura della storia della letteratura e del pensiero, soprattutto nel meraviglioso flusso di coscienza in terza persona di Isabel nel capitolo LIII, che prepara quello che arriverà con la narrativa del Novecento. Così Ritratto di signora nell’essere al massimo del pensiero tipografico, si trova contemporaneamente ad esprimere in pieno quella violenta repulsione nei confronti della cultura stampata e dell’industria meccanica che era già iniziata nel XVIII secolo.
Ma c’è in Ritratto di signora un altro elemento fortemente innovativo. In questo romanzo compare forse per la prima volta una visione moderna del denaro. Che non è, come ad esempio in L'amministratore o in Lady Anna di Anthony Trollope o nei romanzi di Balzac, un solido elemento di definizione delle persone nella loro posizione sociale.
In Ritratto di signora il denaro ha una fluidità nuova e diversa, è trasferibile da una persona ad un’altra senza che le persone cambino, ed è molto più vicino all’idea di denaro che abbiamo oggi, non come elemento di definizione della persona ma come mezzo per fare cose, come modo di darsi una vita.
Il telegrafo funziona dal 1844, che è lo stesso anno in cui è arrivato in Europa il paciuli, Henry James scrive quando l’epoca elettrica si va già dispiegando pienamente, e forse è riuscito a coglierne anche questo aspetto, con la preveggenza che hanno sempre gli artisti. (bamborino)
La traduzione è un po’ datata, al punto che ci si leggono cose come alla dimane a pag.43 per dire l’indomani, oltracciò a pag. 52 e sieno a pag. 166, con la confidenza al posto della fiducia a pag. 586, ma tutto sommato un’aria d’antan non sta male al romanzo, anche se il congiuntivo ammazzato, come suppongo che vi piace a pag. 45, e fa sì che uno si sente un atomo a pag. 286 (ma questo forse è solo un refuso, si sente invece di si senta), può lasciare perplessi, come lascia perplessi il qualcun’altra a pag. 405, e ci si domanda come si faccia ad aggrottare le ciglia a pag. 482. Nel cap. XXII c’è una svista autoriale, per cui si alza in piedi una suora che in piedi c’era già e nello stesso capitolo si parla di gente ma il verbo è plurale e riferito alle persone, che in inglese va benissimo ma in italiano qualche volta no.
Le donne belle sembrano sempre dapprima intelligenti. Un bel colore o una bella linea sono infatti l’espressione dell’intelligenza più assoluta. (Italo Svevo, Novella del buon vecchio e della fanciulla)

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