mercoledì 11 aprile 2012

Thomas Bernhard

Thomas Bernhard, Il soccombente. (Adelphi)
Glenn Gould non c’entra.
Lo sanno tutti che questo romanzo parla di Glenn Gould. Parla di Glenn Gould fin dalla prima riga. Ma il Glenn Gould di Thomas Bernhard è un personaggio totalmente e consapevolmente inventato, profondamente diverso dal vero Glenn Gould.
Glenn Gould in famiglia non ha avuto contrasti alla sua vocazione di musicista, anzi, suo padre e soprattutto sua madre lo volevano grande musicista da prima che nascesse. Glenn Gould non era ricco e non ha mai abitato a New York. E Glenn Gould non è stato un allievo di Horowitz, che detestava e disprezzava e da cui era detestato e disprezzato, e non ha mai messo piede in Europa prima dei suoi concerti nell’Unione Sovietica. E poi Glenn Gould non avrebbe mai tirato una bottiglia contro una statua. E soprattutto non avrebbe mai affibbiato a un suo amico un nomignolo sprezzante.
Glenn Gould è un pretesto e un simbolo.
In un romanzo in cui si entra perdendosi.
Ci si perde subito nel flusso del discorso che è flusso narrativo e flusso di coscienza. In uno stile semplicemente unico e con un ritmo magistrale, 186 pagine (l‘edizione economica Gli Adelphi) in cui Bernhard non va mai a capo e ci martella di parole con una continua precipitazione linguistica che fiorisce nel silenzio della lettura come una serie di spari, scanditi dalle esplosioni più forti delle brevissime frasi di accompagnamento che riportano al pensiero del narratore e alle parole delle persone che ricorda e si staccano secche dal discorso e si ripetono come segni d’interpunzione.
Come si ripete la cadenza dei movimenti del narratore, fissità più che movimento, decine di pagine per passare dalla porta di una locanda all’interno e all’incontro con la padrona.
L’unica cosa paragonabile che mi ricordo di aver letto è l’ultimo verso del Canto V dell’Inferno, la mitraglia di consonanti e caddi come corpo morto cade.
Il soccombente è sostanzialmente la storia di un cretino, Wertheimer, raccontata da un altro cretino che narra la propria storia in prima persona, e tutti e due i cretini da giovani hanno studiato pianoforte al Mozarteum di Salisburgo con il grande Horowitz, e con loro c’era Glenn Gould.
In poche parole Wertheimer è ricchissimo e a un certo punto decide di diventare un virtuoso del pianoforte, alla faccia dei suoi genitori che vorrebbero che egli si occupasse del loro impero industriale e commerciale. Ma Wertheimer non ce la fa. Avrebbe i numeri per diventare un grande concertista ma la grandezza di Glenn Gould lo blocca e lui dedica la propria esistenza ad occuparsi senza alcun risultato delle cosiddette scienze dello spirito e a rovinare la vita della sorella e alla fine si uccide in una maniera penosamente plateale, dopo avere dichiarato nei fatti la propria totale incapacità di avere rapporti con gli altri.
Anche il narratore passa la vita a non fare assolutamente niente se non tentare di scrivere un libro su Glenn Gould, e di non essere destinato a fare il grande pianista se ne accorge presto, ma a differenza di Wertheimer non sembra farsene un problema.
Nella vita dei due, le donne non esistono. O non sono degne di menzione.
C’è un discorso sulla felicità, nel romanzo, che si annida nella storia e nelle parole della padrona della locanda, le persone semplici che vivono in mezzo alle difficoltà, le malattie la miseria e qui c’è anche il racconto di una condanna ingiusta per un omicidio, le persone semplici non hanno tempo di pensare e non si fanno problemi.
Ma preferisco non mettere sulle spalle di Thomas Bernhard una banalità come questa, anche se forse è profondamente vera come tutte le banalità.
Perché mi viene in mente un altro suicidio plateale, quello di Emma Bovary. E la differenza dopo un secolo, tra un personaggio come Emma e uno come Wertheimer. Che forse è la differenza tra le persone di oggi e le persone dell’Ottocento, la differenza tra l’umanità della piena fioritura dell’Epoca Tipografica e l’umanità della nostra epoca di simultaneità.
Emma vive in mezzo ai cretini e agli zotici e si cerca un senso, non smette mai di cercarlo, da sola, against all odds.
Wertheimer è lui il cretino più cretino di tutti, e il senso crede di averlo fin dall’inizio. Non c’è nessuna tensione esistenziale in Wertheimer, come non c’è più nessuna tensione esistenziale nel Novecento, il secolo dell’elettricità (vedi Marshall McLuhan, La galassia Gutenberg) e del tutto qui e tutto subito.
Emma Bovary ha un carattere, vive con persone con cui articola rapporti. Wertheimer è poco più di un’idea, i suoi rapporti con gli altri sono solo il vuoto. Come del resto per il narratore, che nell’unico momento in cui prende in considerazione l’esistenza degli altri, i camionisti della birra nella locanda, è per constatare un’incolmabile distanza.
Glenn Gould entra nel romanzo come l’unica risposta praticabile, l’unica evidenza di una possibilità di soluzione. Che è nella trascendenza, nell’abbandono completo della tensione verso sé stessi e della condizione umana del qui e adesso, nella tensione verso qualcosa al di fuori e al di sopra della nostra misera persona. Che per lui è stata la musica, e per noi potrà essere di volta in volta quel che ci pare, purché vada almeno un pochino al di là della voglia di guardare la televisione.
Forse non ci saremo affrancati dall’angoscia, ma secondo me non c’è dubbio che una distanza critica e consapevole dal mondo della volgarità quotidiana possa aiutarci ad essere un po’ meno infelici.
Come ci può aiutare la riflessione su un libro come questo, con tutta la sua difficile bellezza. (bamborino)
Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo. (Albert Camus, Il mito di Sisifo)

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