domenica 10 giugno 2012

Caritone di Afrodisia, Senofonte Efesio, Charlotte Brontë, William Thackeray


Caritone di Afrodisia, Il romanzo di Calliroe. (Rizzoli)
Senofonte Efesio, Abrocome e Anzia. (Rizzoli)
Charlotte Brontë, Jane Eyre. (Mondadori)
William Makepeace Thackeray, La fiera delle vanità. (Mondadori)
Noam Chomsky in Linguaggio e problemi della conoscenza dice che è decisamente possibile e anzi assolutamente probabile, che si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica.
E infatti la narrativa tratta di una sostanza misteriosa, che rimane da sempre misteriosa anche se da sempre impregna profondamente di sé la vita degli uomini, e delle donne.
Così misteriosa da essere completamente ignota a quelle profonde scienze dell’umano che sono le psicologie scientifiche.
Razza strana, gli psicologi scientifici.
Nella loro sistematica ideologica ci sono pulsioni, ci sono complessi, ci sono archetipi, ci sono Sistemi Motivazionali Interpersonali. Da qualche anno ci sono anche dei pezzetti di corteccia cerebrale. C’è di tutto.
Tranne questa misteriosa sostanza che è l’amore.
L’amore lo si trova nella letteratura, qualche volta anche nella sociologia. Non nelle psicologie.
Che tuttavia hanno sempre parlato facilmente di sesso.
Ma nel parlar tanto di sesso, le psicologie non conoscono le pertinenze dell’amore. Sempre ammettendo che conoscano le pertinenze del sesso, di cui comunque ignorano che è quasi sempre, forse sempre, fuso in qualche modo nella sostanza stessa dell’amore. Lo sa anche Antonello Venditti.
Forse perché l’amore sfugge alle definizioni precise. Non è come l’invidia del pene, che si capisce subito che cosa vuol dire. E non è nemmeno come l’ansia e la depressione, che ci si può illudere di avere inventato delle scale di valutazione per misurarle e per esprimerle visivamente con qualche istogramma a canne d’organo, nelle modalità visive caratteristiche della scienza dell’Era Tipografica.
D’altra parte Noam Chomsky sempre in Linguaggio e problemi della conoscenza dice che la capacità umana di produrre scienza è solo una delle nostre facoltà biologiche (come il linguaggio) e quindi come tutti i sistemi biologici deve avere i suoi fini e i suoi limiti, e ci sarà sempre qualcosa che non riusciremo a capire.
Viene in mente anche Michel Foucault, che fa nascere la psicologia insieme con le scienze della disciplina.
E viene in mente Viktor Frankl, uno psicologo controcorrente che aveva anche passato un periodo ad Auschwitz, tanto controcorrente da dire che la grande malattia del nostro tempo è la mancanza di significati e di obiettivi, tanto controcorrente da parlare di manifestazioni collettive di vuoto esistenziale e da preconizzare nel 1946 l’epoca in cui l’uomo svuotato avrebbe cominciato ad imitare pedestremente gli altri (vedi René Girard e il desiderio mimetico), di una tale controcorrenza che in Logoterapia e analisi esistenziale ha detto che il motivo che muove gli psicologismi, la loro oscura aspirazione, è la tendenza a svalorizzare ogni contenuto spirituale.
E infatti poi c’è un’altra cosa, di cui le psicologie non trattano, che è la morte.
Che è ben bizzarro, dato che l’uomo è l’unica creatura consapevole di morire, consapevole di vivere in un tempo che precedeva la sua nascita e che continuerà dopo la sua morte, come dice Marc Augé che è un etnologo. E quindi il pensiero della morte è caratteristicamente e profondamente umano.
Ma la psicologia evidentemente tratta di cose più chiare, più facilmente comprensibili. Tratta di quelle cose comprensibili alla facoltà biologica di produrre scienza, che per fare i conti e per costruire le macchine vanno benissimo, ma non servono a nulla per i veri problemi dell’esistenza. E per tutte quelle cose incomprensibili che ci sono nel fondo di questi problemi.
Insomma può essere legittimo il sospetto che lo psicologo/a, se nel riflettere e nello sperimentare (si fa per dire) sulla psiche (che viene da una parola greca che vuol dire anima) umana, se in queste riflessioni e in questi esperimenti non gli/le viene in mente l’amore, forse è perché non sa che esiste. Probabilmente perché l’amore forse è un po’ come la coscienza o come la tristezza, cioè potrebbe avere un'ontologia esclusivamente soggettiva e quindi per capire che cos'è è necessario e sufficiente averlo provato. E a questo punto può essere legittimo il sospetto che agli psicologi/ghe l’amore non gli si mai capitato.
Razza strana, gli psicologi.
Forse un pochino sfigati.
Non è la prima volta che questo blog si occupa delle cosiddette scienze psicologiche in termini di aperto sarcasmo. E credo che non sarà l’ultima.
Passiamo alla letteratura.
Comincio con Il romanzo di Calliroe e Abrocome e Anzia avvertendo innanzitutto che queste due opere non sono in vendita separatamente ma fanno parte di un volume intitolato Il romanzo antico in cui oltre ai prevedibili L’asino d’oro e Satyricon c’è un sacco d’altra roba, e che per euro 14.50 secondo me non dovrebbe mancare nella casa e nella testa di nessuno. Diciamo che Il romanzo di Calliroe è probabilmente il romanzo più antico che ci sia pervenuto: Margaret Doody in La vera storia del romanzo lo mette tra il 50 a.C. e il 150 d.C., mentre Abrocome e Anzia è datato sia dalla Doody che da Giuseppe Zanetto che ha curato l’edizione Rizzoli tra il I e il III - IV secolo. In entrambi si realizza il rarissimo miracolo che Georges Bataille in L’erotismo considera quasi impossibile, cioè l’unione perfetta tra sesso e amore.
Gli amanti si incontrano, si guardano e immediatamente o poco dopo perdono completamente la testa l’uno per l’altra e si sposano, non come nel romanzo moderno alla fine ma all’inizio della storia, e si mettono a scopare da ammazzarsi. Con una congiunzione assoluta tra il corpo e lo spirito, con baci che trasferiscono addirittura il pensiero dall’una all’altra persona.
I guai che portano alla separazione e alle disavventure degli sposi cominciano quasi subito dopo, ma non sono intrinseci alla storia sentimentale in atto, vengono dall’esterno, invidie circostanti, irritazioni divine e oscuri presagi. Lui e lei sono bellissimi in entrambi i romanzi, scatenano passioni travolgenti in tutti quelli che li vedono, Anzia addirittura suscita tumulti dovunque si trovi a passare. Con uno sviluppo narrativo molto primitivo, articolato sulle cadenze del viaggio, e assenza di descrizioni e di qualunque cosa che possa interrompere la serratissima valanga di avvenimenti che di volta in volta stravolgono la trama e le vite dei personaggi. Essenzialità stilistica forse anzi quasi sicuramente legata alle modalità di lettura pubblica e ad alta voce dell’epoca che precedette la tipografia. L’unica brevissima interruzione è un bellissimo inserto di fine osservazione psicologica dei dubbi interiori di Artaserse in Il romanzo di Calliroe. C’è una struttura più complessa in Abrocome e Anzia, con storie minori infilate nella storia principale (c’è anche una storia gay), e con qualche modernissima variazione nell’uso di tempi presenti e passati. Con finale che in entrambi i casi vede la riunione felice degli amanti.
Che Jane Eyre è uno dei più grandi capolavori di tutta la storia della letteratura lo sanno già tutti.
Posso solo aggiungere un dato di esperienza personale, cioè che Jane Eyre è il romanzo su cui ho riscontrato la massima concordanza di gradimento (a parte un socio di questo blog, Zarlingo), cioè è quello di cui ho sentito dire più spesso che era bellissimo, quando non veniva definito il libro più bello che ho letto, quando non ho sentito dire che bello, l’ho letto cinque volte.
Sottolineando la assoluta grandezza narrativa dei primi giorni di Jane da bambina nel collegio, il cui racconto ha i modi della soggettiva cinematografica, e sembra di non capire niente di quello che sta succedendo intorno alla protagonista che racconta in prima persona, e poi ci si rende conto che è proprio perché è lei stessa che non capisce niente.
Poi diciamo che la storia è avvincente come un thriller e che si passa da un colpo di scena a un altro con un ritmo travolgente sia nell’articolazione degli episodi l’uno rispetto all’altro, sia nella costruzione interna di ogni singola sequenza narrativa e di ogni gesto di ogni personaggio cani e cavalli compresi.
Facendo rilevare che il racconto della nascita e dello sviluppo dell’innamoramento di Jane per Rochester non ha termini di paragone in letteratura ed è assolutamente rivoluzionario per l’epoca, in un crescendo formidabile di tensione erotica meravigliosamente esplicitata anche nei dettagli del correlato fisico delle emozioni e dei sentimenti. Per essere chiaro fino in fondo, manca solo che la Jane dica che si bagna quando lo vede. L’unico confronto possibile secondo me è la Renal di Il rosso e il nero, che è una vera bomba erotica e forse è la più grande bomba erotica di tutti i tempi ma si deve tener presente innanzitutto che la Renal è una donna sposata che tradisce il marito e secondariamente ma molto importante, che il suo romanzo l’ha scritto un uomo. Che oltretutto era un francese.
Ma anche Stendhal accenna e fa capire, e non è esplicito come Charlotte Brontë nel dire l’unione tra il sentimento e la carne.
E diciamo che lo stesso sviluppo emotivo viene magistralmente costruito anche in terza persona nel crescere progressivo dei sentimenti di Rochester.
Lasciando perdere anche qualche osservazione sulla struttura narrativa, che la Brontë se la poteva prendere fin che voleva con Jane Austen e criticarla perché le Passions erano perfectly unknown to her, ma Jane Eyre pur nella sua sfolgorante bellezza ha la trama ancora strutturata sostanzialmente sul viaggio (vedi il solito Walter Ong, Oralità e scrittura) e ad ogni fase di sviluppo della vicenda corrisponde uno spostamento, mentre nei romanzi della Austen ci sono strutture narrative di enorme complessità e articolazione senza che nessuno si debba muovere di un miglio, per non dire di Mansfield Park che praticamente si svolge tutto nella stessa casa come certi film di Rainer Fassbinder.
Che poi volendo forse è anche il caso di lasciar perdere che la storia di Rochester con la bambina francese ricorda un po’ la storia del colonnello Brandon di Ragione e sentimento.
E mi si consenta anche di dire che poi alla fin fine tutta questa Passion non è che la si veda poi tanto, nella vita della gente comune, e quindi forse la Jane è solo un po’ più realista della Charlotte e conosce meglio la gente. O forse, tornando a quanto detto prima degli psicologi/ghe, per poter parlare di certe cose bisogna in qualche modo esserci passati dentro, e la Jane non aveva avuto la fortuna, come la Charlotte, di farsi una Passion con un uomo sposato. Ammesso e non concesso che quella di Fanny per Edmund in Mansfield Park non sia una Passion.
Tralasciando infine tutta la massa di cretinate che si possono dire in possibili (ma dovrebbero essere vietati) registri di interpretazione veterofemministi e veteromaschilisti di questo capolavoro che applicando schemi mentali di centocinquant’anni dopo vedono in Jane non una donna dedita alla ricerca dell’indipendenza ma una poveretta che non pensa ad altro che a sposarsi, o su altri versanti una specie di strega (così la vede Harold Bloom) che raggiunge il proprio trionfo nell’asservimento completo dell’uomo amato.
Ma senza tralasciare che volendo si può trovare qui una delle caratteristiche tipiche del desiderio triangolare di René Girard, cioè Jane ama Rochester, il mediatore sarebbe la presenza misteriosa della casa, e tutta la storia va a finire che l’oggetto del desiderio di Jane, Rochester, alla fine, se non è proprio rovinato, diciamo che è piuttosto malconcio. 
Quindi lasciando perdere tutto quello che non ha a che fare con il nocciolo della faccenda, cioè che Jane Eyre è una storia d’amore.
Per La fiera delle vanità, una raccomandazione.
Anche se non avete l’abitudine di leggere più di un libro alla volta, in questo caso consiglio con forza di cominciare, prima del romanzo di Thackeray, qualcosa di contemporaneo. La scelta migliore secondo me sarebbe un libro di racconti di alto livello anche se non troppo impegnativo, io per caso mi sono trovato ad avere lì Bolero berlinese di Ingo Schulze ed è andato benissimo. Comunque una lettura che si possa interrompere senza danno. Questo per avere un altro ottimo libro già pronto dopo che si sarà finito di leggere La fiera delle vanità, perché dopo questo romanzo si rischia di precipitare in una condizione di spaesamento e frastornamento da eccesso di Bellezza e di non riuscire per qualche giorno a decidersi ad aprire e iniziare un’altra opera di narrativa.
E con questo credo di aver detto tutto. Posso aggiungere che il primo capitolo è semplicemente travolgente, fino al gesto secco su cui si chiude. Dopo, ci si rimane un po’ male perché la storia sembra girare in giro in una serie di quadretti sostanzialmente statici, ma Thackeray sta solo preparando l’inquadramento ambientale e sta scaldando il motore del romanzo, che poco dopo parte e ti porta via al ritmo di qualche decina di pagine tutte le sere che possono diventare centocinquanta quando arriva la domenica.
Si può aggiungere qualche parola sulla potenza di un matrimonio sotto la pioggia e sull’animazione di rumori di odori e di voci in un albergo di quart’ordine. E anche qualcosa sul profondo fascino narrativo della battaglia di Waterloo, prima fatta sentire sullo sfondo di quel che accade nella vicina Bruxelles, poi raccontata a pezzetti e solo per quel che riguarda i personaggi del romanzo. Più qualche osservazione sui tempi in cui non c’era ancora la guerra totale del Novecento, e a Waterloo ci si scannava mentre a Bruxelles si andava a spasso.
Ma anche qui, nel personaggio di Dobbin, amico d’infanzia di George, la condizione del desiderio triangolare di Menzogna romantica e verità romanzesca di René Girard è ben evidente.
Questo tanto per dire qualcosa di un romanzo che è comunque tutto troppo bello.
Con una struttura narrativa straordinaria, in cui Rebecca Sharp è la protagonista, ma non lo è, ed è comunque il punto d’intersezione e la pietra di paragone di tutte le storie di questa storia colossale.
Ma il fatto di La fiera delle vanità è che anche se Thackeray credeva di scrivere un romanzo su come va il mondo in senso sociologico, per carità non voglio dire che non ci sia riuscito, c’è riuscito alla stragrande, ma in realtà ha scritto un romanzo sull’amore.
A seguire, un tentativo di discorso sull’amore in queste due opere.
Che tra l’una e l’altra si presenta sotto diversi aspetti. In Jane Eyre abbiamo l’amore di Jane per Rochester, di Rochester per Jane, di Rochester per la prima moglie, di Rochester per la ballerina francese, di St. John Rivers per Jane, l’amore dell’aristocratica Blanche Ingram per Rochester. Un bel campionario, direi.
Anche solo l’amore di Jane per Rochester, ci si può domandare che amore è. Amore tormentato, amore in mezzo a mille vicissitudini, amore a lieto fine.
Lieto fine, però con Rochester ridotto come viene ridotto.
E un altro bel campionario di amori lo troviamo in La fiera delle vanità. L’amore di Amelia per George, l’amore di George per Amelia, l’amore di George per Rebecca, l’amore di Sir Pitt Crawley per Rebecca, l’amore di Rawdon Crawley per Rebecca, l’amore di Jos Sedley per Rebecca, l’amore di Lord Steyne per Rebecca (ma cosa gli faceva ‘sta Rebecca agli uomini, e volendo che le stavano dietro ce n’è anche degli altri), l’amore di William Dobbin per Amelia, l’amore di Glorvina Malony per Dobbin, uno quando lo legge non se ne rende conto ma a ripensarci è veramente un bel casino. Cioè devo riconoscere ancora una volta che fare il blog per quel che mi riguarda personalmente è stata proprio una bella idea perché di tutti questi amori me ne sono reso conto solo scrivendo questo post.
Amori tutti ampiamente fallimentari, e anche quello che va a finir bene, l’amore indemagliabile del personaggio migliore per la povera stronza ma non mi va di raccontare il romanzo, anche questo amore fa veramente pietà.
Tanti amori diversi, ma come dice Tolstoj in Anna Karenina, se ci sono tanti ingegni quante teste, allora ci sono tanti generi d’amore quanti cuori.
In sostanza tra gli amori antichi e gli amori moderni c’è una bella differenza.
Gli antichi perdevano la testa e si gettavano gli uni nelle braccia degli altri o ne facevano di tutti i colori per l’amato/a, senza star lì a pensarci su più di tanto. Poi col tempo cominciano i problemi, già Don Chisciotte che peraltro era matto corre dietro a un’amata immaginaria che non raggiungerà mai, e con Shakespeare l’amore diventa veramente una cosa complicata. Fino al discreto pasticcio di Pamela di Samuel Richardson, per arrivare alle amarissime vicende di Choderlos de Laclos. Cose brutte, problemi a non finire. Anche per Jane Austen che nel suo ancora parzialmente settecentesco Northanger Abbey Northanger Abbey l’amore principale fila via liscio con difficoltà di origine esclusivamente esterne e va a finire bene, ma un altro amore collaterale è un vero schifo, e poi quando dà inizio all’Ottocento con Ragione e sentimento, c’è Marianne Dashwood con il colonnello Brandon che poveretti fanno quasi pena, lui ama lei ma l’ama non in sé e per sé ma perché gli ricorda un pezzo della sua vita, altra triangolarità à la Gerard, e lei non lo ama nemmeno di striscio ma sostanzialmente ha per lui solo dell’affetto o neanche quello e anche per sua sorella Elinor e per il buon Edward ci sono problemi a non finire, anche lì il cammino è lastricato di incomprensioni e poi basta perché ripeto non mi va di raccontare i romanzi che si toglie una parte del piacere di leggere.
E non ho parlato di Heathcliff e di Catherine Earnshaw, né di Elizabeth Bennet e di Darcy.
D’altra parte le psicologie non conoscono la possibilità di studiare i mutamenti del pensiero umano nel corso del tempo. Trovano pietre filosofali di valore eterno e le applicano di volta in volta a tutto, per spiegare tutto e il contrario di tutto.
Cioè, quando va di lusso la pietra filosofale dà una spiegazione anogenitale di come mai a quarant’anni ci si innamora in un modo diverso che a sedici anni, ma studiare se nel corso dei secoli i rapporti tra uomini e donne cambiano e quindi cambiano i reciproci sentimenti o i modi di esprimerli no, troppo difficile.
Così si scopre che forse una delle ragioni per cui le psicologie non si occupano dell’amore potrebbe essere proprio che l’amore nei secoli è evidentemente cambiato, e le psicologie si occupano solo di quelle cose fondamentalissime che secondo gli psicologi sono rimaste intatte dal Triassico e mai non cambieranno come il complesso di Edipo e i Sistemi Motivazionali Interpersonali e il complesso Stratilico e l’Identificazione Proiettiva.
Qualcosa l’ha detta Denis de Rougemont in L’amore e l’occidente, che sostiene che è tutta colpa del manicheismo e dei Catari, se le storie d’amore si sono messe tutte sulla linea della storia di Tristano e Isotta. Abbastanza convincente, ma secondo me il mito di Tristano e Isotta arriva fino a un certo punto, e poi a spingere il cambiamento interviene qualcosa d’altro. René Girard dà una spiegazione diversa di quel che dice Denis de Rougemont, ma lasciamo perdere.
Forse bisogna tornare a quel capolavoro di fatiche interiori che è Pamela di Samuel Richardson. Che occupa una posizione particolare nel discorso su come sono cambiati nel corso del tempo i modo di dire l’amore e l’interiorità.
Facile al giorno d’oggi, come era del resto stato facile ai tempi per Henry Fielding, fermarsi all’aspetto più superficiale del romanzo, se non mi sposi non te la do. Ma dopo quasi trecento anni ci possiamo domandare se nella prima metà del Settecento avevano già trovato piene possibilità i mezzi linguistici e concettuali di espressione dell’interiorità del dubbio e dell’angoscia. O se a quell’epoca il dubbio e l’angoscia esistenziale avevano lo stesso peso che hanno oggi. Cioè Pamela è sì innamorata del padrone, ma non riesce a configurarsi questo amore se non in una certezza. E le certezze che bastavano prima per scopare a un certo punto non ci sono più. Non nella pratica quotidiana della popolazione in generale ma  in quell’espressione dell’umanità pensante che è la letteratura.
Perché ripeto, a ben guardare anche il meraviglioso lieto fine di Jane Eyre arriva che è quello che arriva, cioè sono felici sì ma insomma, è pur sempre una variante del chi s’accontenta gode, e per arrivare fin lì sia la Jane che il Rochester si sono fatti un culo così e a un certo punto rischiano la pelle tutti e due. E anche in Guerra e pace alla fine sono tutti contenti ma in una condizione esistenziale di proclamato isolamento dal mondo.
E quando ci avviciniamo al Novecento arrivano i problematici profondi grandissimi disastri di Anton Čechov, La signora col cagnolino per dirne uno che basta per tutti e Volodia il grande e Volodia il piccolo o La saltabecca per dirne altri due veramente tremendi. C’era già parecchio tormento in Madame Bovary e in Il rosso e il nero e in Anna Karenina ma bisogna riconoscere che qui il coltello taglia, ma non profondamente come in Čechov.
Forse la questione di fondo è proprio quella della certezza che cercava Pamela, che mano a mano si è andata perdendo con l’arrivo della Modernità, vedi Zygmunt Bauman, la Modernità che ha sostituito gradualmente le antiche certezze di definizione personale con le aleatorie variabilità del denaro.
Nelle storie dell’antichità l’amore è il dato di fatto iniziale, indiscutibile e indiscusso, che si pone prima della definizione dei personaggi, che anzi sono definiti proprio dall’amore.
Poi nell’Ottocento l’amore si pone ancora a partire dall’inizio, ma dall’inizio della vita di persone che in qualche modo si sono costruite nella struttura della personalità prima di arrivare all’amore.
Dopo di che, forse c’è un periodo di mezzo, per Anna Karenina e per Emma Bovary l’amore è un aspetto della difficoltà generale della costruzione di sé come persona, fino a Henry James, che in Ritratto di signora ci mostra l’amore come uno dei modi di non comprendersi reciprocamente e di sbagliare tutto.
E nel Novecento, vedi Čechov e vedi Georges Simenon, l’amore arriva alla fine, quando la persona è distrutta dalla vita.
Insomma a un certo punto è arrivata la Modernità. Che forse nel suo rapporto con l’amore si presenta per la prima volta in La lettera scarlatta, ma Hawthorne è americano, e gli Stati Uniti sono da sempre all’avanguardia nei processi disgregativi e nell’istituzione di ogni genere di precarietà personale.
E mi rendo conto che il post è lungo e forse è stato un po’ faticoso da leggere, ma bene o male i libri questa volta sono quattro, e c’è voluto il suo tempo e la sua fatica anche per scriverlo. (bamborino)
Per Il romanzo di Calliroe, a pag. 44 abbiamo un < che non c’entra, a pag. 104 delle virgolette fuori posto, a pag. 105 dei invece di del, a pag. 110 tuttoe invece di tutto e, a pag. 123 dite invece che di te.
Per Abrocome e Anzia a pag. 159 c’è monte invece di morte, a pag. 178 avvicini invece di avvicina.
In Jane Eyre abbiamo a pag. 34 una delle ormai rarissime apparizioni di un tinello, parola in disuso dagli anni Sessanta, a pag. 158 un avrei dovuto che anche se non segue la regola dei verbi servili ci sta benissimo, a pag. 211 una notte che forse in italiano veniva meglio sera, a pag. 223 un abominevole digli invece di dille, e se non se ne può più di questa peste dei pronomi sbagliati poco dopo abbiamo anche un bel soddisfi invece di soddisfaccia, e bisogna dire che questa traduzione per i composti del verbo fare ci mette lì un bellissimo soddisfaceva invece del prevedibile soddisfava a pag. 274, per poi ulteriormente farci contenti con sopraffaceva invece di sopraffava a pag. 302 e 383, ma poi crolla in un penoso quanto facilmente evitabile soddisferò invece di soddisfarò a pag. 478. Troviamo poi a pag. 272 delle iridi invece di iris nel senso dei fiori, seguite poco dopo dalle iridi nel senso oculare, un ultramarino invece di oltremare nel senso del colore a pag. 450, un ospite senza apostrofo riferito a una donna a pag. 406, un eden minuscolo a pag. 415, e a pag. 438 si chiudono delle virgolette mai aperte (viene in mente Flaubert, che in L’educazione sentimentale a un certo punto fa smettere di piovere senza che abbia mai cominciato), mentre a pag. 534 si aprono delle virgolette che non si chiuderanno mai. Con una sorpresa, che c’è un cane che si chiama Carlo, e m’ero detto, ma perché tradurre in italiano il nome del cane e non gli altri e invece pensa te, che il cane si chiama Carlo anche nell’originale.
Per La fiera delle vanità a pag. 130 abbiamo una minuscola dopo un punto, a pag. 222 un punto interrogativo che dovrebbe stare fuori dalle virgolette e invece è dentro, a pag. 532 c’è l’incertezza se la mezz’ora sia maschile o femminile, a pag. 634 abbiamo “a noi... loro ci sembrano”, indiscutibilmente criticabile ma queste cose da parlato ogni tanto a me mi piacciono, a pag. 707 c’è un che in più.
Abbiamo poi due sviste autoriali, perché a pag. 67 Jos Osborne si scola un’intera caraffa di punch, ma a pag. 69 la caraffa è solo metà, mentre a pag. 225 si scopre che Thackeray non sapeva che Voltaire era uno pseudonimo, e parla di un Monsieur de Voltaire.
Gran finale, concorso intertestuale a premi senza premi oltre alla grandissima soddisfazione di sapere la risposta. In quale altro romanzo, che precede La fiera delle vanità di ventitré anni, un pianoforte viene regalato in circostanze misteriose.
I sapienti conoscono tutto tranne quell’unica cosa che stai cercando. (S. Y. Agnon, Il senso dell’odorato)

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