martedì 26 giugno 2012

Jerome D. Salinger


Jerome David Salinger, Nove racconti. (Einaudi)
Nel secondo racconto, Lo zio Wiggily nel Connecticut, Mary Ann passa a casa di Eloise mentre è in viaggio. Una conversazione tra due ex compagne di scuola. Completamente decontestualizzata. Dettagli dell’ambiente, dettagli di gesti. Bevono, sono sempre più ubriache. la conversazione procede a pezzi, tra i dettagli irrilevanti emerge una vecchia storia d’amore che apre lo spazio alla profonda infelicità di Eloise. Un gesto insignificante dopo l’altro, c’è anche Ramona, la bambina di Eloise, i suoi occhiali, il suo amico immaginario. Ma anche la bambina tutto sommato è un dettaglio irrilevante di questa storia di cui le due amiche sanno tutto e che arriva al lettore come attraverso un vetro opaco.
Anche Bella bocca e occhi miei verdi, forse il più bello di tutti, qui non c’è nemmeno la persona, è una voce al telefono, una telefonata di notte che si distanzia dal lettore attraverso una identica opacità, anche qui dettagli irrilevanti, movimenti di un braccio, lo sguardo della donna che è a letto con l’uomo che riceve la telefonata, le sigarette, il portacenere, la cenere sul lenzuolo, la descrizione minuziosa del taglio di capelli dell’uomo a letto. Anche qui la storia emerge a pezzi, la storia di un matrimonio e della vita di un avvocato.
Anche negli altri racconti, la vita arriva a pezzi, un dettaglio dopo l’altro, nelle frasi di conversazioni casuali, sempre schermata dalla distanza dell’incomprensibile. Come se tutto fosse uguale, in un tempo di simultaneità che non conosce le graduazioni d’importanza e di dimensioni della prospettiva.
John Cheever, Raymond Carver, Richard Yates. Io credo che il debito della narrativa americana nei confronti di questi racconti sia immenso.
E il minimalismo comincia qui. (bamborino)
L’angoscia rende il tempo due volte più lungo. (Fëdor Michajlovič Dostoevskij, La padrona)

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