sabato 23 giugno 2012

Marshall McLuhan


Herbert Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare. (il Saggiatore)
Probabilmente, se avessi letto questo libro quando fu pubblicato in Italia, nel 1967, mi sarei rovinato la vita.
Perché non sarei mai stato un marxista-leninista, e nel 1968 non avrei fatto quel poco che ho fatto, e l’avrei saputo subito, che non solo non si poteva fare la rivoluzione ma proprio non c’era niente da fare, in nessun modo. Insomma non mi sarei vissuto nemmeno quei pochi anni di entusiasmo prima di capirlo comunque per conto mio, che non si andava da nessuna parte. O che comunque si va dove va la Storia, e noi ci possiamo fare ben poco.
Però in compenso avrei saputo subito da che parte bisognava guardare, per capire qualcosa di quello che sta succedendo.
Non si è mai contenti.
Ma adesso posso solo ringraziare padre Ong che mi ha fatto scoprire McLuhan, e la Anna che mi ha fatto scoprire padre Ong.
Che poi, posso star tranquillo che se il libro di McLuhan l’avessi letto allora, probabilmente non avrei capito niente anch’io, come è capitato più o meno a tutti in Italia, che non avendo letto né  La sposa meccanica La galassia Gutenberg nessuno si è reso conto che Gli strumenti del comunicare non è (ripeto, non è) un libro sui mezzi di comunicazione.
Ma è una delle opere che si inseriscono nel grande lavoro di studio del cambiamento del pensiero e soprattutto della coscienza dell’Uomo nel corso dei secoli, con gli studi di Harold Innis,  di Walter Ong, di Eric Havelock, per arrivare fino a  Teilhard de Chardin.
Poiché come ha detto Humberto Maturana noi, in quanto esseri umani, esistiamo nel linguaggio, cioè il nostro pensiero e la nostra vita si sviluppano in e con un mezzo di comunicazione, e nel linguaggio si sviluppa e si modifica quella parte del nostro pensiero, se così si può dire, che è la coscienza e poiché come dice McLuhan i mezzi di comunicazione non sono solo un’estensione del nostro corpo ma del nostro sistema nervoso centrale, e questo l’ho già detto nel post su  Empire and communications di Harold Innis ma vale la pena di dirlo ancora, così con lo studio dei mezzi di comunicazione e del loro cambiare nel tempo si è portato avanti lo studio dei cambiamenti della coscienza nel tempo.
Innis Ong e Havelock hanno studiato i processi che hanno portato al cambiamento della coscienza dall’oralità alla scrittura alla tipografia, Mc Luhan è partito dal Ramus di Walter Ong e ha studiato i cambiamenti portati dalla tipografia e i processi in corso attualmente.
Gli strumenti del comunicare non si limita a valutare il rapporto dei mezzi di comunicazione con la coscienza, radio televisione stampa telegrafo cinema fotografia macchina da scrivere, ma investe la totalità dell’esperienza esistenziale della nostra epoca, dalla politica all’economia alla sociologia all’uso degli elettrodomestici ai mezzi di trasporto ai viaggi all’abbigliamento alla letteratura all’urbanistica all’architettura al denaro agli orologi allo sport alla pubblicità alle armi alla musica.
Con la famosa distinzione tra i media caldi, che colmano di dati un’unico senso e travolgono e si impongono, come la radio che fu fondamentale per i totalitarismi del XX secolo, e i media freddi come il telefono o la televisione, che chiamano alla partecipazione.
Quindi non posso pensare di riuscire a scrivere un post decente su un’opera di tale vasta portata, e tenendo presente che Marshall McLuhan ha sempre scritto opere volutamente e voluttuosamente disorganiche e non ordinate in una successione gerarchica di capitoli dipendenti uno dall’altro e ha sempre invitato a una lettura casuale delle sue opere, lettura erratica e casuale che tuttavia io personalmente sconsiglio perché bisogna tenere presente anche che McLuhan era tra l’altro un simpatico burlone, comunque il post su Gli strumenti del comunicare lo scrivo così, come mi viene, su alcuni dei diversi argomenti che McLuhan ha affrontato nel suo libro.
Cioè lui ha parlato praticamente di tutto, ma per quel che mi riguarda credo che sia come si suol dirsi il caso di non fare i miei bisogni fuori dalla tazza.
Così comincio facendo notare che nell’Introduzione di quest’opera colossale Marshall McLuhan scrive che la nostra è la Age of Anxiety e propone come simbolo dell’Ottocento la poltrona del direttore di giornale, e come metafora del Novecento il divanetto dello psichiatra, in quanto come estensione dell’uomo la poltrona è un’ablazione specialistica del posteriore, o preterito, mentre il divanetto estende l’essere nel suo totale abbandono e sopprime la tentazione di esprimere punti di vista personali, nell’aspirazione della nostra epoca elettronica alla compartecipazione totale, all’empatia e alla consapevolezza in profondità ovvero la fine dell’individualismo tipografico.
E poi vado a prendere qualcosa qua e là, per esempio il capitolo 11 che parla dei numeri e della folla, della funzione dell’alfabeto fonetico nella generazione della frammentazione visiva dello spazio e nella nascita della matematica, mentre la tecnologia elettronica con la sua velocità istantanea detronizza il senso della vista e ci riporta dalla frammentazione a una condizione di sinestesia, in cui i numeri riprendono le loro antiche caratteristiche tattili, come quando si contava sulle dita delle mani e dei piedi, e gli ammassi statistici di numeri portano le folle a nuovi afflussi di intuizione primitiva e di magica consapevolezza subconscia.
Poi passo alla musica, facendo riferimento al capitolo 18, La parola stampata, che tra l’altro è un bellissimo piccolo riassunto di La galassia Gutenberg. Nel capitolo 18 McLuhan dice che per quanto riguarda la poesia, con la tipografia e la perdita dell’abitudine alla lettura ad alta voce, si scoprì che era possibile leggere i versi senza udirli, e quindi poteva essere possibile far suonare gli strumenti musicali senza parole d’accompagnamento. Lui dice che la musica tornò ad avvicinarsi alla parola con Schönberg e Bartók, ma mi sembra giusto metterci anche l’opera lirica, perché l’oralità in un certo senso non era mai stata perduta completamente e la grande ripresa della lirica nell’Ottocento bene o male esplode con l’invenzione del telegrafo, che è il momento d’inizio dell’Epoca Elettrica e dell’oralità secondaria.
Voglio solo fare notare che per quanto riguarda la musica McLuhan aveva visto giusto, e la pienezza dell’oralità secondaria e del recupero della parola è arrivata con il rock, in cui lo strumento vero e proprio è diventato la voce del cantante.
Solo per fare un esempio in un punto di massima grandezza di questa espressione dello spirito, invito all’ascolto di She Was Hot dall’album Undercover dei Rolling Stones, in cui la voce di Mick Jagger è veramente tutto, e le chitarre di Keith Richards e di Ron Wood semplicemente cioè tutt’altro che semplicemente come suonano quei due che non sembra niente ma è un lavoro tremendo di continui scambi di note, le due chitarre fanno da sostegno al canto che è tutto, e così nel resto di questo disco fondamentale.
Ma poi non ci si è fermati al rock, e nella musica la parola è diventata tutto, fino a sostituire completamente la musica stessa e ad abbandonare addirittura la forma del canto, con il rap.
E con il rap si va addirittura più indietro, avvicinandosi a quello che forse è il punto di origine del linguaggio, che secondo quanto riporta Harold Innis in Empire and communications e Dean Falk in Lingua Madre potrebbe essere situato a metà strada tra il canto e il discorso.
Poi si può parlare del capitolo 14, sul denaro, in cui già nel 1964 McLuhan faceva notare che nell’era elettronica stiamo tornando alla condizione delle società primitive, in cui ricchi e poveri vivevano più o meno nello stesso modo, poiché adesso l’uomo più ricco è ridotto ad avere sostanzialmente gli stessi divertimenti e anche lo stesso cibo e gli stessi veicoli dell’uomo comune.
Ma la riflessione sul denaro è ben più vasta, parte dai traffici marittimi dei fenici e arriva fino a John Maynard Keynes, passando per i rapporti tra produzione artistica e prosperità delle classi dominanti, mostrando il potere storico delle merci nel determinare le forze formative delle culture e mostrando anche come l’idea prettamente tipografica della frammentazione della vita interiore mediante i prezzi e le statistiche, che è stata la grande novità del pensiero di Daniel Kahneman, risalga al XVIII secolo.
Si può prendere in esame anche quello che McLuhan dice nel capitolo 20 della fotografia, che estende e moltiplica l’immagine umana alle proporzioni di una merce prodotta in serie, e ha generato la possibilità di esprimere rapporti visivi senza una sintassi, che secondo me è l’inizio della fine del pensiero ramista, influendo non soltanto sul nostro atteggiamento esteriore ma sui nostri atteggiamenti interiori e sul dialogo con noi stessi, facilitando l’immissione nella nostra vita di percezioni artificiali e di valori arbitrari, rendendo inoltre il turismo ben poco diverso dall’andare al cinema o dallo sfogliare le pagine di una rivista. E non solo, perché secondo la sua geniale visione la fotografia, immobilizzando il gesto, portò l’arte dalla creazione del mondo esterno all’esplorazione del mondo interiore, e nel momento in cui divennero stabilmente visibili e osservabili gli atteggiamenti interiori espressi dal gesto, e non fu più necessario descriverli con la serie cronologica delle parole, si diede la stura alle psicologie del profondo, ma secondo me questa è una conseguenza della fine delle sintassi visive del ramismo, vedi Ramus di Walter Ong.
Alla fine, nel capitolo 33 sull’automazione, ci dirà che la compravendita e il consumo tendono a identificarsi con l’apprendimento, la comprensione e l’assorbimento dell’informazione, e che il consumatore diventa produttore, e potremo pensare a YouTube e a Facebook e a Instagram che sono infatti diventati quello che sono per la produzione che ci mettono dentro i loro consumatori, e da lì ci potremo accorgere che nel 1964 Marshall McLuhan aveva già visto tutto e capito tutto.
E insomma questo è un libro che si legge tutto intero e poi si va avanti a rileggerlo a pezzi qua e là quando succede qualcosa di nuovo o ci si accorge di qualcosa che c’era sfuggito in quello che sentiamo e vediamo intorno e non si finisce mai, come non finirei mai questo post, ma adesso basta.  (bamborino) 
A pag.38 si poteva fare lo sforzo di tradurre Dagwood, che in italiano si chiama Dagoberto, a pag. 50 c’è gli al èposto di le, a pag. 53 c’è un improbabile tostatore che forse dovrebbe essere un tostapane, a pag. 59 alcool, a pag.92 si poteva tradurre, Massa e potere, anche perché Crowds and Power non è certo il titolo originale dell’opera di Elias Canetti, a pag. 197 manca una e o una virgola, a pag. 227 la invece di le, a pag. 267 McLuhan fa uno sbaglio, attribuendo a Charles Dickens in David Copperfield il primato della descrizione del mondo visto dagli occhi di un ragazzo, perché Dickens in questo è stato preceduto di un anno da Charlotte Brontë con Jane Eyre, a pag. 274 c’è dei invece di dai.
Inoltre deploro che media venga tradotto media, e che così sia ormai abituale dire e scrivere. Gli anglofoni anglizzano le parole e poi ci fanno i plurali come gli pare, in italiano con le parole delle altre lingue il plurale non lo si fa, nemmeno con il latino, tant’è vero che si dice gli sponsor e non gli sponsores. E lo stesso per i curriculum. 
L’unico modo certo per non trovarsi è non sapere che ci si è persi. (Romain Gary, Mio caro pitone)

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