martedì 12 giugno 2012

Philip K. Dick, Samuel Richardson,


Philip Kindred Dick, In questo piccolo mondo. (Fanucci)

Samuel Richardson, Pamela. (Mondadori)

Michel Foucault, La vita degli uomini infami. (il Mulino)

George Steiner, La fuga dalla parola. (Garzanti)


Per Dick, lascio da parte per un momento il romanzo e comincio dalla prefazione, e poi salto di colpo alla postfazione.
Nella sua sfiga infinita, che ha fatto sì che passasse la vita ad essere considerato uno scrittore di mezza tacca invece che un genio creatore di mondi (questa espressione non è farina del mio povero sacco, ma viene da un saggio di Giuseppe Tomasi di Lampedusa su Charles Dickens) come Dickens e Balzac e Jane Austen, anche questa volta Philip Dick è stato sfigato e, dato che questo non è un romanzo di fantascienza, si trova a incappare in due commenti di tipo vastamente perlocutorio che, lungi dal dirci qualcosa sull’opera, tentano di persuaderci sulla partecipazione emotivoesistenziale dell’Autore al suo scritto.
Ora io posso capire che si tenti di salvare il senso di una favoletta come Il visconte dimezzato o di una porcheria (sic) come La morte a Venezia contestualizzandole nelle beghe quotidiane di chi le ha scritte, ma trovo che questo tipo di contestualizzazione è completamente fuori luogo nei confronti di un capolavoro che tratta temi di rilievo umano universale.
Cioè qui per il prefatore e per il postfatore la questione non è se questo romanzo ci dice qualcosa sugli uomini e sulle donne e sul senso della vita e soprattutto sull’amore, ma come la storia abbia a che fare con il personaggio di Philip Dick e con le sue vicende personali con le donne.
Cioè evidentemente le cose di cui si parla in questo romanzo ai due non sono capitate mai, e quindi non avendo termini di riferimento, non si sono accorti di niente. Che poi, anche se l’amore nella tua vita non c’è mai stato, basta leggere qualche romanzo decente per venire a sapere che qualche volta, a qualcuno, capita anche l’amore.
Ma forse leggere a volte non è sufficiente.
Perché anche questo romanzo poteva bastare, per capire.
E In questo piccolo mondo è una delle più belle storie d’amore che siano mai state scritte.
Quel tipo di amore fatto di istanti, di sguardi che si fermano sulla pelle e scivolano dentro la carne, di mutamenti interiori graduali e non compresi dalle persone stesse che li attraversano, di decisioni incomplete e casuali che reciprocamente avvicinano fino all’esplosione, che sembra quasi accadere per caso ma immediatamente travolge la vita di lui e di lei in una tensione inarrestabile e crescente.
Quando di colpo un uomo e una donna che si erano trascinati fino a quel punto della loro vita nella inconsapevole ricerca di qualcosa che desse loro un senso in un mondo ordinato e falso in cui si sentivano staccati e precari, di colpo la ricerca di sé stessi si interrompe e non si sa cosa s’è trovato, ma non si riesce più a pensare che all’altro, a cercarlo, a trovarlo guardarlo e abbracciarlo.
E ancora una volta nella letteratura (e nella vita com’è? qualcuno lo sa?) l’amore non è possibile, la realizzazione di questa compenetrazione assoluta delle anime e dei corpi si scontra con il mondo, con le sue miserie. Deve rimanere sospesa nel tempo isolato di spazi nascosti, fino a quando tutto finisce, semplicemente perché non può andare avanti. O forse semplicemente perché la solitudine è il dato di partenza assoluto della coscienza e il suo punto di arrivo, nella totale scoperta di sé stessi che si realizza solo nell’altro.
I due amanti di questo romanzo sono persone sbagliate. Erano persone sbagliate e fuori posto prima di incontrarsi, lo sono ancora di più dopo l’incontro, la loro è una storia sbagliata, finisce nel modo sbagliato. Così si apre la domanda, se questo del romanzo di Dick è un amore sbagliato, o se l’amore nella nostra epoca non si debba trovare ad essere sbagliato e fuori posto per definizione.
E non nel senso che l’amore è una cosa bella ma in questo brutto mondo non può trovare una strada. Bensì nel senso che il tessuto interpersonale di questo mondo attuale è tale, da costituire l’amore solo in quanto anomalia e devianza.
In questo piccolo mondo pone il problema ma non dà una risposta, Philip Dick costruisce una storia in cui tutto quello che conta semplicemente conta perché non viene detto. Come se fosse impossibile dirlo.
Samuel Richardson invece dice, dice e dice. Non si ferma mai.
Questo romanzo fondamentale nella storia della letteratura, fondamentale nel senso in cui le fondamenta permettono la costruzione degli edifici, è assolutamente imprescindibile per una comprensione del processo storico che ci ha portato da Miguel de Cervantes a Samuel Beckett.
Perché nel diluvio di parole e di articolazione di linguaggio di Pamela già si aprono sia le strade che arriveranno al grande romanzo dell’Ottocento, sia i più angusti e tortuosi sentieri che porteranno al crollo formale del Novecento.
Cioè Pamela non ha la complessità di struttura del romanzo dell’Ottocento ma ne ha già tutta la capacità di rivolgersi al quotidiano, e in questa apertura alla vita di tutti i giorni contiene i primi germi dell’implosione soggettivistica del romanzo del Novecento.
Quindi alcune semplici osservazioni sul testo, dato che la storia più o meno la sanno tutti (è uno dei romanzi più famosi di tutti i tempi) e comunque la si dice in poche parole, cioè il giovane aristocratico vuole andare a letto con la bellissima e giovanissima cameriera, la cameriera non gliela dà, lui ne fa e gliene fa di tutti i colori, la cameriera resiste, l’aristocratico la sposa.
Insomma tutto diverso da Dick. In In questo piccolo mondo ci sono due adulteri che vanno a letto subito, qui a letto ci vanno alla fine e solo dopo un legittimo matrimonio. Ancora amore, ma un altro genere di amore.
Chi decidesse di partire per il viaggio di questo libro, si prepari a leggere 638 pagine non facilmente sostenibili per il gusto, o forse per il cattivo gusto, di un lettore moderno. Ma nel corso della lettura, può valer la pena di soffermarsi a riflettere se l’enfasi che Samuel Richardson mette nell’espressione dei più profondi sentimenti della protagonista e narratrice Pamela non sia molto ma molto più dignitosa e decisamente più digeribile dell’enfasi delle scemenze che ci tocca sentire e vedere nella pubblicità delle automobili e delle merendine.
Poi, ci si può accorgere che con Pamela abbiamo, molti anni prima delle nuovissime trovate postmodernistiche, l’entrata in campo della metatestualità, che peraltro aveva fatto la sua prima apparizione nel canto VIII dell'Odissea e si era già completamente dispiegata in Don Chisciotte. Perché il romanzo consiste nelle lettere che Pamela manda ai genitori, che in seguito diventano un diario, e a un certo punto il signor B. (l’aristocratico che la vuole portare a letto, che poi si scopre che B. vuol dire Brandon e allora concorso a premi senza premi, chi è l’altro Brandon del grande romanzo inglese) la obbliga a consegnargli i suoi scritti, e se li legge. E quindi da quel momento abbiamo un personaggio del romanzo che ha letto il romanzo. E noi non sappiamo più che cosa stiamo leggendo.
Perché se è possibile che qualcuno legga Pamela, questo qualcuno dovrebbe trovarsi fuori dal romanzo, e invece il signor B. è un lettore che si trova dentro il romanzo, ma contemporaneamente non può non essere fuori dal romanzo, almeno mentre lo legge.
Viene in mente il secondo teorema di Gödel.
Cioè teniamo presente che noi esistiamo nel linguaggio (Humberto Maturana,  Autocoscienza e realtà), cioè ciò che  da nessuno è detto semplicemente non esiste e la conoscenza avviene attraverso il linguaggio (vedi anche Platone, Cratilo, XLIII) e in questo romanzo è detto che il signor B. tiene in mano il romanzo stesso e lo legge e insomma, il signor B. esiste (nell’unico dominio fenomenico che abbiamo a disposizione, cioè la nostra mente che è fatta delle parole del nostro linguaggio) in una maniera piena e formidabile e come lettore del romanzo esiste né più né meno di come esistiamo noi. Cioè nel leggere Pamela noi veniamo a sapere che l’ha letto anche il signor B. né più né meno di come siamo venuti a sapere che l’hanno letto Henry Fielding e Carlo Goldoni, e quindi entra a far parte dell’insieme linguisticamente generato e linguisticamente, e solo linguisticamente, esistente, dei lettori di Pamela.
Qui il registro del nostro discorso deve cambiare, e non possiamo non riconoscere che da questo momento in avanti il signor B. non può far altro che continuare la forma di vita che gli ha dato Samuel Richardson e che ora egli si trova a vivere completamente, e quindi non può che innamorarsi di Pamela e decidere di sposarla. Che è appunto quello che accade.
Entriamo quindi in un’ulteriore vertigine, perché il signor B. a quel punto si trova nella nostra stessa posizione, che ha lì in mano il romanzo e l’ha letto fino a quel punto e non sa come andrà a finire, e andiamo ancora a Humberto Maturana e al determinismo, e al sospetto che ci possa essere un Dio nella cui mente è già scritto il nostro romanzo, e ci abbandoniamo a ulteriori vertiginose considerazioni sul libero arbitrio. Cioè da quel momento in avanti il signor B. continuerà a farne di tutti i colori, starà male, farà una cosa e poi il suo contrario, ma non sfuggirà al proprio destino. Che peraltro Richardson racconta come una serie di libere decisioni del nostro amico.
Insomma forse ho fatto un casino, ma spero di scatenare qualche non inutile riflessione.
Sull’esistenza in generale e su questo romanzo e sulla letteratura in particolare. Che aiuti a vedere in Pamela non semplicemente una storiella zuccherosa, errore che peraltro aveva fatto anche Henry Fielding, che aveva addirittura scritto il suo Joseph Andrews per prendere per il culo Richardson e i suoi estimatori. E io stesso, tanti anni fa, mi ero accontentato dei pareri moralistici su Pamela e avevo letto il romanzo di Fielding, credendo di poter dire la mia su quel bigotto di Richardson.
Che bigotto lo era, ma ha dato un contributo fondamentale alla nascita del grande romanzo dell’Ottocento e quindi a tutto lo sviluppo del pensiero degli esseri umani.
E dopo l’Ottocento, Samuel Richardson arriva fino al Novecento. Perché è forse con Pamela che comincia veramente il romanzo d’introspezione (anche se c’era già stata con Madame de La Fayette con  La principessa di Clèves, e  settant’anni prima di lei c’era già stato Honoré d’Urfé con L’Astrée), che qui sembra una menata continua di scrupoli morali e di dubbi religiosi della povera ragazza ma in realtà è una formidabile manifestazione di quelle profondità introspettive che nel Novecento porteranno al flusso di coscienza, a Joyce, a Proust. Tanto profonde in Pamela, che la continua totale presenza della soggettività della protagonista riesce forse a smussare in parte le individualità degli altri personaggi, che le girano intorno un po’ come manichini.
Ma questo romanzo era così rivoluzionario che Goldoni, per la sua riduzione teatrale, preferì modificare il finale, e non è un caso che sia stato scritto da uno stampatore e che la protagonista sia poco più che una pezzente. Pamela viene pubblicato tra il 1740 e il 1742, in pieno illuminismo, e rappresenta l’arrivo in letteratura di una borghesia che sta arrivando dappertutto. Manca poco al 1789.
Basta. Cioè non basta, perché rimane da dire che Pamela è un portentoso fiume di ricchezza linguistica, che succede di tutto, che ci sono alcune scene, e scenate, veramente grandiose. E che se ci si accosta a questo romanzo con il dovuto rispetto e soprattutto con la più assoluta ingenuità, cioè come dei bambini che non abbiamo ancora letto niente e non come dei presuntuosi che crediamo di sapere tutto e di essere chissà che figata di intellettuali perché abbiamo letto Milan Kundera e Erri De Luca, se magari al cospetto di Samuel Richardson ci mettiamo anche fisicamente in ginocchio nell’atto di aprire per la prima volta il libro e cominciare a leggere, a pag. 638 ci saremo dati una bella ripulita al cervello e saremo anche contenti di una gran bella lettura.
La brevissima opera di Michel Foucault mostra tutta la crucialità di Pamela nell’essere il primo momento esplicito del percorso attraverso il quale a partire dal Seicento la letteratura è arrivata alla condizione attuale. Cioè come essa abbia abbandonato i territori del favoloso (vedi Cervantes) per far parte “del grande sistema di costrizione mediante il quale l’Occidente ha obbligato il quotidiano a mettersi in discorso”, in un procedimento che troverà il suo culmine nella psicanalisi (vedi sempre di Foucault, La volontà di sapere) e che da lì ha continuato ad estendersi irrefrenabilmente, fino a raggiungere, dopo la presa di potere sullo spirito, il dominio e il controllo istituzionale del corpo un giorno dopo l’altro con la sempre più vasta medicalizzazione della vita quotidiana (vedi pubblicità delle bevande che migliorano le difese immunitarie, per dirne solo una, o le scritte sui pacchetti dei biscotti, per dirne anche un’altra).
Quello che la giovane cameriera racconta si svolge nella quotidianità più banale, e la sua riflessione è continua, su sé stessa e sugli altri. Come dire appunto, quasi una seduta psicanalitica di seicento pagine. Una seduta psicanalitica che nella letteratura arriverà agli altissimi, o profondissimi, livelli di Dostoevskij nella prima parte di Memorie del sottosuolo.
Le considerazioni storiche di Michel Foucault vanno quindi ben al di là delle osservazioni di Marshall McLuhan in  La galassia Gutenberg e di Walter Ong in  Oralità e scrittura che vedono un cambiamento, con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, nella forma del pensiero umano. Leggendo Foucault forse possiamo pensare che, nello stesso processo storico, la stampa abbia costituito un dispositivo (vedi Giorgio Agamben,  Che cos’è un dispositivo?) che ha portato a un cambiamento non solo della forma, ma anche e soprattutto del contenuto del pensiero.
Per quanto riguarda George Steiner, La fuga dalla parola è uno dei saggi raccolti in Linguaggio e silenzio.
Che tratta dell’impoverimento del linguaggio.
A partire dal Seicento, scrive Steiner, il continuo sviluppo delle scienze si è andato appropriando di sempre più vasti territori dell’esperienza umana, che hanno cominciato a trovare espressione in linguaggi tecnici, se non addirittura non verbali. Se la semplice lingua che tutti sono in grado di parlare poteva, fino ai tempi di Shakespeare, descrivere tutto ciò che era conosciuto, oggi questo non è più possibile. La restrizione di campo si è accompagnata alla miseria linguistica resa necessaria dai mezzi di comunicazione di massa e dalle necessità di semplicità della pubblicità, e a questo si è aggiunta la condizione sempre più diffusa di distruzione serale delle persone dopo una giornata di lavoro. Che è uno dei motivi per cui si possono leggere le semplicità verbali e concettuali di scrittori come Hemingway, ma Pamela riuscirebbe quasi insostenibile.
Mentre lo sfoltimento del linguaggio, come dice Steiner, condanna gran parte della letteratura moderna alla mediocrità, nella seconda metà dell’Ottocento la necessità di esprimere le nuove realtà della profondità psicologica del quotidiano (vedi Foucault) porta, nei territori di un linguaggio che continuava a restringere i suoi ambiti di pertinenza, all’apparizione dei tentativi rivoluzionari di Lautréamont, di Rimbaud e di Mallarmé.
Il discorso di George Steiner si approfondisce nei rapporti tra narrativa e poesia, si sposta verso un confronto tra la parola e la musica.
Io qui mi limito a porre il problema dell’esanguità del linguaggio con cui la narrativa contemporanea si occupa dei sentimenti. Se la differenza profonda tra il dire tutto di Samuel Richardson e il non dire quasi niente di Philip Dick sia il risultato di un impoverimento di linguaggio che non è solo miseria formale ma è anche indigenza di contenuti, o non sia sempre una fuga dalla parola che, almeno nel caso degli Autori più grandi, può trovare solo nel silenzio la sua distanza dai giornali e dalla televisione. (bamborino)
In questo piccolo mondo , a pag. 35 c’è un punto invece di una virgola, a pag. 48 c’è un fruto, a pag. 114 c’è in invece di i, a pag. 129 c’è shön invece di schön, a pag. 159 c’è un bel pronome sbagliato, le al posto di gli, a pag. 208 un che scritto due volte, a pag. 304 manca in, a pag. 320 mente invece di mentre. Ma si apprezzano le mezz’ore scritte al femminile e i marshmallow scritti correttamente al singolare a pag. 330.
Con una piccola osservazione per il prefatore, che a pag. 9 dice che a In questo piccolo mondo manca la mancanza di un respiro più ampio. Che fa ridere, che manca la mancanza, e fa ancor più ridere in quanto detto da uno che si mette su un piano così sublime da sentirsela di dire cosa manca a Philip Dick, e scrosciano ulteriori tempeste di risate quando subito dopo dice che gli manca, sempre a Dick, anche una più forte sostanza intellettuale, che si vede che il prefatore sa bene di averne tanta lui, di sostanza intellettuale.
Pamela, a pag. XX William Hogart diventa Hogarts, a pag. 46 abbiamo Jarvis invece di Jervis, a pag. 139 Cicely invece di Cecily, a pag. 220 un abominevole soddisferò, a pag. 362 un invece di uno, a pag. 350 Andrews diventa Williams (di chi è lo sbaglio?), a pag. 414 c’è una silaba.
“Vivere” non è né respirare, né soffrire e nemmeno essere felici, vivere è un segreto che si può scoprire solo in due. La felicità è un lavoro di squadra. (Romain Gary, Biglietto scaduto

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