sabato 21 luglio 2012

Mark Ames


Mark Ames, Social killer. (Isbn)
Louisville, Kentucky, 14 settembre 1989. Più o meno le otto e mezza del mattino.
Joseph Wesbecker parcheggia la macchina davanti alla sede della tipografia Standard Gravure, dove lavora, ed entra. Dopo circa trenta minuti, quando Wesbecker si spara in faccia, ci sono sette morti e venti feriti.
Una cosa che era cominciata nel 1986, nell’ufficio postale di Edmond nell'Oklahoma, dove il postino Patrick Sherrill aveva fatto quattordici morti e sedici feriti tra i suoi colleghi e superiori. C’erano stati due piccoli episodi precedenti, ma è da Edmond che i massacri negli uffici postali dilagano negli Stati Uniti. Tanto che nasce un nuovo modo di dire, going postal (che è il titolo originale di questo libro), per intendere che uno s’incazza al punto di dar fuori di matto.
E se sulle prime ci si può meravigliare che i massacri all’americana nei luoghi di lavoro e nelle scuole siano cominciati negli uffici postali, basta leggere Post Office di Charles Bukowski per capire come si sta in questi piccoli inferni.
Ma il massacro della Standard Gravure è il primo che porta il dramma in tutti i luoghi di lavoro. Poi l’orrore arriverà nelle scuole, vedi Eric Harris e Dylan Klebold, Columbine.
Il sottotitolo di questo libro libro, eventualmente utile per qualche riflessione sul recente batmassacro di Denver, è La rivolta dei nuovi schiavi.
Perché l’idea di partenza di Mark Ames è che quelli che egli definisce massacri per rabbia non siano opera di pazzi, esplosioni di patologia mentale indipendenti dal contesto sociale ed economico, ma veri e propri episodi di rivolta, assimilabili alle rivolte degli schiavi. E quanto alle personalità fragili o particolari degli assassini, Ames fa giustamente rilevare che un sistema comincia a cedere dai propri punti di debolezza e che i primi a esplodere sono ovviamente quelli che si trovano a soffrire di più, così come ai tempi della schiavitù le rivolte erano spesso guidate da invasati se non da pazzi completi.
Il libro parte da Joseph Wesbecker, il suo lavoro, la sua vita, quello che dicono di lui i sopravvissuti alla strage. Poi si passa allo studio delle condizioni di vita degli schiavi nei campi di cotone, si racconta che bel personaggio era George Washington, si parla dettagliatamente delle orribili condizioni di lavoro massacrante di vita precaria e di stress continuo della attuale classe media americana.
Mark Ames fa notare pesantemente che ai tempi della schiavitù, la schiavitù era considerata normale e naturale, ma adesso non lo è più, come le attuali condizioni di vita di milioni di persone potrebbero essere considerate mostruose tra cento o duecento anni. Fa persino notare che il lavoro salariato è molto più conveniente, per i padroni, della schiavitù, perché lo schiavo lo compri e poi è un bene che devi mantenere in buono stato, mentre un salariato se ti crepa di fatica non c’è problema, ne trovi un altro, e lo paghi solo finché ti serve, e poi lo butti via. Mi domando in quanti ci abbiano mai pensato, a questa cosa così ovvia.
Comunque, un massacro dopo l’altro Social killer racconta gli ultimi quarant’anni di storia sociale ed economica degli Stati Uniti senza un momento di cedimento o di noia, per arrivare all’incubo attuale, l’epoca in cui i controlli sulle persone, per prevenire i massacri, si fanno sempre più stretti. Cioè in un paese in cui le possibilità di devianza sono quasi zero, si sta perdendo anche la libertà di essere uno sfigato che per esempio in una scuola è una vittima del bullismo. Perché Eric Harris e Dylan Klebold erano lo zimbello dei bulli della loro scuola.
Ma non è possibile trasferire in un post la ricchezza e la complessità di questo libro, che tra l’altro aiuta a vedere (anche perché è stato scritto ben prima, nel 2005) che le radici della crisi economica non sono certo limitate al guaio dei subprime. C’è solo da leggerlo, preparandosi ai conati di vomito e all’angoscia e alla paura che tutto questo schifo, un po’ alla volta, arrivi anche qui.
Con tre osservazioni.
La prima è che Mark Ames dà la colpa di tutto ai cambiamenti iniziati con Ronald Reagan. Può essere, ma secondo me la deregulation di Reagan è stata l’ineluttabile ouverture della globalizzazione, e se teniamo presente l’America di John Cheever, di John O’Hara, di Richard Yates e adesso di Joyce Carol Oates e facendo un salto indietro arriviamo a John Dos Passos e a Upton Sinclair, possiamo vedere che forse il reaganismo ha dato a tutto una bella accelerazione, ma le cose erano pronte a mettersi così da sempre.
La seconda osservazione è che questo libro conferma, ma non ce n’era nessun bisogno, la natura di sostegno ideologico del Sistema Americano del lavoro di Michael Moore, che ha fatto il suo film sulle torri gemelle per confermare, sotto la falsa specie di una critica a Bush, la versione ufficiale dei fatti anche dove era più spudoratamente evidente che qualcosa non tornava (vedi  David Griffin), completando il quadro con un clistere di retorica patriottarda in sostegno della guerra in Afghanistan, e che anche nel film sul massacro di Columbine ha scollegato completamente il fatto da ogni contesto sociale e si è guardato bene dal mettere in evidenza le vere spinte che stanno sotto a queste mostruosità, andando a rompere le balle a dei poveracci che avevano l’unica colpa di fare i commessi da Wal-Mart e offrendoci persino lo spettacolo rivoltante di questo obeso che deride un povero vecchio inconsapevole (ma normopeso) nella persona di Charlton Heston, per spostare il tiro (doppio senso involontario) e confondere le idee a tutti.
E la terza osservazione è che Mark Ames dice che Joseph Wesbecker era basso, cioè 1,72, e veder scritto basso della statura 1,72 mi ha fatto go postal. (bamborino)
A pag. 9 c’è una mezzora, a pag. 11 familiari nelle immediate vicinanze di famiglia, a pag. 41 un osceno soddisferà, ma poi a pag. 53 quando ci si aspetterebbe soddisfando c’è invece un corretto soddisfacendo. A pag. 94 c’è un la in più, a pag. 111 a trentatre anni non si ha l’accento, ma quando si invecchia fino a quarantatré l’accento arriva, a pag. 146 c’è un supone, a pag. 156 il solito inusuale, a pag. 161 c’è un Cumadin invece di Coumadin, a pag. 200 uno che ha fatto una strage e poi si è ucciso viene detto sospettato e appare un Jonathon, a pag. 210 manca uno spazio, a pag. 243 c’è a al posto di al, a pag. 247 comincia un uso del temine isteria che starebbe meglio isterismo, perché in italiano l’isteria è una malattia ben precisa che consiste nell’avere falsi disturbi fisici, a pag. 269 manca uno spazio, a pag. 274 c’è un rimpiangere che secondo me andava meglio lamentare, a pag. 308 si parla di SUV Jaguar, mai visto un SUV Jaguar, a pag. 295 c’è un aria, a pag. 319 c’è una i in più.
Non stupisce che i giovani a volte si armino di pistole e ammazzino a destra e a manca per un bisogno folle d’amicizia. (Romain Gary, Mio caro pitone, 1974)

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