mercoledì 4 luglio 2012

Voltaire


Voltaire, Candido. (Mondadori)
Come è già accaduto in occasione di un mio scritto su  Non parliamo la stessa lingua di Todd Hasak-Lowy, mi azzardo a mettere ancora in questo blog un piccolo spazio di social networking, cioè di raccontare episodi irrilevanti della mia vita privata.
E dato che il nostro amato lieder Bamborino non cessa di esortarci, noi che scriviamo nel blog, ad una hegeliana tensione verso l’Assoluto, cercherò sia di superare gli altri blog nell’irrilevanza degli episodi, sia di realizzare con questo post una mirabile congiunzione tra le miserie della mia vita privata considerate come soggetto e il possibile senso della lettura attuale di Candido di Voltaire considerato come oggetto.
Veniamo quindi all’aneddoto personale, che malgrado l’assenza di fotografie confido sarà tale da superare in leggerezza di futilità e peso di noia qualunque racconto di vacanze, guai eroticosentimentali con uomini o donne, code al supermercato, rogne di parcheggio e dissapori con colleghi di lavoro, nonché avventure dei figli dei nipotini e del gatto: non mi spingo ancora fino al vero senso profondo del social networking, cioè a riferire con commenti più che prevedibili le notizie del giornale e/o del TG, ma portate pazienza che forse prima o poi arriveremo anche lì.
Allora, anche questa volta si tratta di un sabato mattina, primi giorni di un caldo ottobre, un sabato mattina caratterizzato da un risveglio particolarmente pesante per motivi non ancora compresi, non essendomi né ubriacato seriamente la sera precedente e non avendo nemmeno tirato tardi a casa di un’amante (ci tengo a far notare l’apostrofo), e al risveglio pesante ha fatto seguito, dopo le rituali procedure mattutine di lavaggio sbarbaggio tabacco e caffè, l’uscita di casa con un paio di vecchie scarpe da corsa, malgrado un cielo nuvoloso che prometteva pioggia, in direzione dell’ufficio postale dove una momentanea disfunzione del quadro luminoso dei numeri ha fatto sì che un’impiegata dicesse ad alta voce che chi doveva pagare bollette si poteva fare avanti anche presso il suo sportello.
E qui arriva un vero classico del raccontino da social networking perché, benché come sempre in queste occasioni mi fossi portato a dietro qualcosa da leggere e appunto stavo leggendo, non mi sono fatto sfuggire il richiamo e mi sono diretto verso lo sportello con le mie bollette, non badando, con la mente ancora disturbata delle immagini della città invisibile Zirma, al fatto che il numero che precedeva immediatamente il mio era detenuto da una vecchia di bassa statura, cioè una donna di età ben superiore alla mia che anche la mia non scherza, ma la vecchia bassa ancorché già in piedi mentre io leggevo seduto, era più lontana e camminava più lentamente, e quindi sono arrivato prima io, trovandomi così lì davanti allo sportello e l’impiegata aveva già cominciato a far passare nella macchina le mie bollette e non ci potevamo allontanare, né io né meno che mai l’impiegata, mentre la vecchia ci verniciava di insulti e aggiungeva che come se non bastasse le mie bollette erano tre mentre la sua era solo una.
Uscito comunque sano e salvo dall’ufficio postale senza aver nemmeno salutato la vecchia ma avendo augurato la buona domenica all’impiegata e avendo avuto nel resto una moneta da 2 euro, ho visto in ciò un segno del Destino e ho dato la moneta al barbone che passa la giornata di fianco al vicino supermercato, barbone che ha la mia disapprovazione in quanto proprietario di un cane ma ha la mia approvazione in quanto vicino al cane tiene sempre un cartone di vino, e comunque penso che anche a me da vecchio, cioè da più vecchio di quel che già sono, potrebbe capitare di trovarmi ridotto così, anche se di sicuro senza cane, e quindi anche se il barbone è più giovane, o meno vecchio, di me, di tanto in tanto offro un piccolo aiuto per il suo sostentamento.
Dopo quest’opera buona sono tornato a casa, dove avevo un appuntamento con un assicuratore ramo vita.
Ora, chiedo di non essere preso per un presuntuoso scimmiottatore di Woody Allen, anche perché sarei penosamente lontano dalle sue altezze: il fatto è vero, così come è vero che l’assicuratore era obeso e aveva i capelli lunghi fino alle spalle, e accompagnava all’abito completo scuro una camicia bianca button-down con i polsini sbottonati e una cravatta azzurra di lucentissimo raso annodata Windsor, e vedendo lo spargimento di libri nel soggiorno anche pavimento mi ha detto, vedo che Lei legge molto e mi ha raccontato di avere già in corso di pubblicazione un’opera sull’arte della vendita, ed è altrettanto verissimo che l’assicuratore non è stato affatto pesante (sic) e mi ha rispiegato come meglio non si poteva le cose che avevo in corso, e che mi ero dimenticato quasi completamente.
Queste faccende di soldi e progetti per un futuro sempre più minaccioso comunque mi costano sempre una certa fatica cerebrale e quindi, salutato l’assicuratore, malgrado il procedere della mattinata e l’aprirsi del cielo, non si diradavano gli effetti dell’inspiegabile cattivo risveglio, e io mi sentivo stanchissimo e ben disposto a tornare a letto, ma per ragioni organizzative mi toccava di mangiare presto, e così ho fatto, per mettermi a letto subito dopo il modesto ma sostanzioso pasto, avendo deciso di rimandare la pulizia dei denti a dopo il risveglio.
Fu così che venni svegliato per tre volte in meno di mezz’ora da quelli che suonano i citofoni per mettere la pubblicità nelle caselle della posta e quindi ho dormito per modo di dire e al terzo risveglio non sono riuscito più a riaddormentarmi.
Il lettore attento può prevedere che a questo punto cos’ho fatto, mi sono messo a lavarmi i denti.
E qui la narrazione di questi episodi irrilevanti tocca il suo culmine nel momento della rottura del filo interdentale che genera, nel migliore stile dei blog di commento esistenziale, delle brevi ma approfondite considerazioni su questo non raro incidente.
Cioè che ci sono due tipi di rottura del filo interdentale, il tipo semplice e il tipo complicato.
Nel tipo semplice, il filo si spezza e il danno consiste solo nel suo dimezzamento in lunghezza che comporta, per chi lo volesse continuare a utilizzare anche dimezzato realizzando così un risparmio, qualche difficoltà nelle successive manovre. Mentre nel tipo complicato il filo non solo si spezza, ma lascia un residuo in mezzo ai denti, residuo che è sempre molto fastidioso e può comportare, nel tentativo di eliminarlo, la rottura ulteriore innanzitutto dei due monconi di filo rimasti e in seguito, se si è particolarmente sfortunati o maldestri o troppo energici, di uno o più altri fili interdentali.
Che è appunto quello che mi è accaduto quel sabato, e costituisce il punto di passaggio agli insegnamenti del dottor Pangloss, presenza costante del romanzino di Voltaire, anche se viene impiccato al capitolo sesto su trenta, per poi ricomparire tuttavia nei pressi del finale dell’opera.
Il dottor Pangloss, che ha mansioni di precettore nel castello in cui vive Candido e da cui prende le mosse la storia, sostiene una sua filosofia dell’ineluttabilità e dice che è dimostrato che le cose non possono essere altrimenti, poiché, in quanto tutto è fatto per un fine, necessariamente tutto è per il fine migliore, facendoci notare che i nasi sono stati fatti per reggere occhiali, e noi abbiamo appunto degli occhiali, così come i cani e i gatti sono fatti per mangiare il cibo delle scatolette, e sempre più gente ha infatti un cane o un gatto e lo nutre con il cibo delle scatolette, e questa del cibo per cani e gatti non l’ha detta il dottor Pangloss, ma è modesta farina del mio povero ma capiente sacco.
Insomma quel sabato sono andato avanti nella giornata riflettendo sulla rottura del filo interdentale e sui suoi rapporti con il resto della mia esistenza, domandandomi se la rottura del filo fosse stata generata dagli avvenimenti che l’avevano preceduta, e passando dalla riflessione su Candido a una riflessione sul determinismo e su quella che  Humberto Maturana chiama deriva strutturale ontogenetica.
Nel romanzino di Voltaire vediamo il protagonista Candido che va incontro a una serie di disavventure, che secondo me non casualmente l’Autore fa partire da un fatto di pertinenza dell’ambito del sesso, e già su questo si può fare una riflessione adatta anche ai tempi attuali, cioè che il trambusto maschi-femmine, se non si sta attenti, genera con facilità ogni sorta di casini (sic). E nelle sue disavventure Candido pensa sempre agli insegnamenti di Pangloss, e si domanda se veramente tutto sia sempre per il meglio, perché al bravo giovane e a tutti quelli che incontra nelle sue peregrinazioni, gliene capitano di tutti i colori.
Quindi anche noi, uomini e donne dell’era informatica, ci possiamo domandare se veramente le cose vadano nell’unico modo in cui possono andare, partendo per una riflessione sul senso più profondo della nostra esistenza, cioè probabilmente Pangloss ha ragione nel dire che tutto è come deve essere e che quindi, non essendoci altre possibilità, tutto è per il meglio, ma la domanda vera è se sarebbe in realtà possibile fare andare le cose in un altro modo, cioè signore e signori, se c’è o non c’è il libero arbitrio.
A questo proposito il nostro amato lieder Bamborino tirerebbe certo fuori Henri Bergson ( qui c’è qualcosa di Bergson) e mi direbbe che quando si valuta la possibilità della libertà di una scelta, la valutazione viene sempre fatta a posteriori, cioè a partire da uno stato mentale che non è quello in cui la scelta è stata fatta, e quindi se c’è o non c’è il libero arbitrio, non si può mai dire, ovvero come mi sembra di aver capito che dice Bergson, il libero arbitrio, per questo semplice argomento, c’è.
Dopo di che, per quel che mi riguarda mi domando se quella di scrivere questo post è stata una decisione della mia libera volontà, o se è stata resa ineluttabilmente necessaria dal fatto che avevo finito di leggere Candido al giovedì sera e quindi ce l’avevo ancora ben in mente quando mi si è rotto il filo interdentale, e in quel momento ho pensato, cosa ne direbbe di questo il dottor Pangloss, e quindi da qui mi è venuta l’idea, che in questo caso non sarebbe tanto una pensata personale ma un accadimento voluto dalle circostanze. Che panglossianamente sarebbe per il fine migliore, poiché se è vero che i nasi sono fatti per reggere occhiali, così è ugualmente vero che in quanto noi abbiamo occhi, per l’appunto accade che ci siano i post da leggere.
O come forse direbbe Hegel, ciò che è reale è necessario in sé, e a questo punto il post c’è, e allora si vede che era necessario.
E anche tu che l’hai letto, non potevi fare altrimenti.
Ma a questo punto personalmente ritengo di essermi incasinato a sufficienza, e chiudo il post segnalando che Candido non è semplicemente il bravo ragazzo ottimista che mi avevano insegnato, in quanto mostra per tutta la storia una certa facilità all’omicidio, tendenza che genera una parte cospicua dei suoi guai, e segnalando altresì l’opportunità per tutti della lettura di quest’opera che oltre a far riflettere è molto piacevole e non solo è brevissima ma fila via in gran velocità, e raccomando l’edizione Oscar Mondatori che avendo il testo originale a fronte permette di leggere anche il bellissimo e facilissimo francese di Voltaire. (saposcat)
Per quel che riguarda il prodotto editoriale, tra i numerosi e a volte comici errori di stampa ce ne sono alcuni veramente imbarazzanti, in quanto sembrano errori di traduzione, e la cosa è piuttosto grave, perché il traduttore è Riccardo Bacchelli, che ho i miei dubbi che si sia sbagliato.
Dopo l’esibizione personalisticocircense e le sparate filosofiche che peraltro condividiamo del caro Saposcat, può valere la pena di fare una riflessione sull’affermazione del dottor Pangloss, che i nasi sono fatti per reggere occhiali e noi appunto abbiamo occhiali, affermazione che messa così sembra solo un paradosso idiota.
In realtà in questa frase è contenuta buona parte della realtà del mondo in cui viviamo, e una parte molto precisa della realtà sanitaria in cui ci dobbiamo muovere, oltre a curare (sic) le nostre malattie. Con particolare riferimento al luogo del pensiero medico-sanitario in cui si verifica la più alta concentrazione di raccolta non differenziata di spazzatura. Cioè la psichiatria.
Da anni vengono prescritti farmaci cosiddetti stabilizzatori dell’umore. Unico rappresentante di questa categoria è stato per lungo tempo il carbonato di litio, preparato galenico non brevettabile e quindi, benché efficacissimo, particolarmente odioso all’industria farmaceutica. Ora, il carbonato di litio era ed è utilizzato per la stabilizzazione del tono dell’umore in una particolare patologia classicamente nota come psicosi maniaco-depressiva, che colpisce un numero assai modesto di persone e che comporta appunto un’instabilità del tono dell’umore, che è in questo caso non un accessorio della malattia, ma l’elemento costitutivo della sua natura, dal quale prendono origine tutte le manifestazioni patologiche.
Ma ad un certo punto sono saltati fuori, senza che la necessità di stabilizzare il tono dell’umore delle persone affette da altre patologie psichiatriche si fosse mai presentata in epoche precedenti, nuovi farmaci che dapprima erano antiepilettici poco efficaci e quindi poco venduti, e poi si è scoperto che stabilizzavano il tono dell’umore. Cioè sono arrivati, direbbe Pangloss, gli occhiali.
E quindi immediatamente sono saltati fuori i nasi per reggerli, nel senso della presenza, mai prima riscontrata come caratteristica patologica con un minimo di dignità nosografia né tantomeno tassonomica, di una instabilità del tono dell’umore diffusa in tutte le malattie psichiatriche, dalla schizofrenia ai disordini di personalità ai disturbi d’ansia ai disordini del comportamento alimentare. Patologie queste dove il carbonato di litio è del tutto inefficace, in quanto funziona solo nel caso già considerato in cui l’instabilità del tono dell’umore è la malattia stessa e non un sintomo accessorio. Così i nuovi stabilizzatori, cioè i vecchi antiepilettici poco efficaci per cui si è trovato un uso nuovo, hanno trovato un loro spazio nella totalità dell’esperienza psichiatrica, così come se ne è potuta raccomandare anche l’aggiunta al carbonato di litio nella psicosi maniaco-depressiva.
Superfluo dire che data l’esistenza di farmaci nuovi, per hegeliana necessità gli psichiatri li hanno ritenuti utili per correggere la peraltro prima inesistente instabilità dell’umore di tutti gli ammalati psichiatrici e quindi si sono messi a prescriverli come se piovesse. E spesso, nei limiti consentiti dalle vigenti disposizioni di legge, a somministrarli anche contro la volontà degli ammalati, mentre fioccano gli inviti all’opportunità di diagnosticare la psicosi maniaco-depressiva anche nei bambini delle elementari.
Del resto, che in mancanza di nuovi farmaci si ricorra all’invenzione di nuove malattie da curare con i farmaci vecchi è detto anche nel bellissimo libro di  Ben Goldacre, La cattiva scienza. (bamborino, herzenstube)
La gente, fuori, avrebbe continuato a correre avanti e indietro, a spostare cose qua e là, a comprare, a vendere, a mettere denaro in banca e a prelevarlo. Era orribile. (Henry Miller, Sexus)

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