lunedì 24 settembre 2012

David Foster Wallace


David Foster Wallace, Infinite Jest. (Fandango)

Negli ultimi anni del secolo, una delle più gradi opere letterarie del Novecento.
Quando non c’è più niente che tiene insieme niente, un romanzo completamente frammentario.
Su cui non si può scrivere un post che non sia frammentario.
Così comincio da I fratelli Karamazov, che non so perché mi è venuto in mente poco dopo l’inizio della lettura. E guarda caso poi Dfw ne parla brevemente, verso la fine.
Anche qui tre fratelli, anche qui lo spettro diabolico che appare nel finale, anche qui una cosa che non c’entra, che si potrebbe togliere e il romanzo rimarrebbe uguale, una storia di un povero ragazzo, Matty Pemulis.
Anche qui una dimensione colossale e una storia che si avvolge dentro sé stessa nel giro di pochi giorni.
Anche qui un’intensità di scrittura che ha pochi termini di paragone. Con la differenza che in Dostoevskij il peso delle parole è in qualche modo diluito nel susseguirsi del discorso che si svolge verso una direzione, mentre in Wallace le parole pesano frase dopo frase, tanto che l’intensità è a volte difficilmente sostenibile.
Un esempio, “I suoi mocassini luccicano sinistri e fanno un elegante scricchiolio da ballerino mentre Lenz cammina per le strade con le mani in tasca e il cappotto aperto, e guarda dappertutto”. Verbi sostantivi e aggettivi che ti vengono addosso pesanti con il movimento del personaggio. E Infinite Jest è tutto così dall’inizio alla fine.
Ma anche lasciando perdere Dostoevskij, ci si può domandare già a partire dalla citazione shakespeariana del titolo, se quest’opera sia apprezzabile fino in fondo senza una qualche competenza della letteratura che la precede. Perché credo che la lettura precedente di altri romanzi permetta di leggere Infinite Jest da dentro o da fuori dell’ambiente di pensiero, cioè dell’ambiente linguistico, che l’ha prodotto.
Per dirne uno, Marcel Proust, la sua trama mentale, che si esprime nell’apertura totale alla digressione. La masturbazione ipersoggettivizzata di Proust viene portata da Wallace alle sue conseguenze estreme.
Come dire che la letteratura del XX secolo si fonda con Proust e si sfonda con Wallace.
O il tentativo di James Joyce e di Virginia Woolf di innestare la scrittura nella multiformità inafferrabile del pensiero. O l’inestricabilità assoluta dei personaggi e delle storie, collegati gli uni agli altri, gli uni dentro gli altri, come è stato per Jane Austen e Anthony Trollope e Balzac.
In un certo senso qui Wallace chiude il Novecento mettendo in discorso la stessa messa in discorso di sé che è stata la letteratura di tutto il secolo.
Altro problema, di cosa parla questo romanzo.
Parla del futuro del mondo, e qui viene in mente la fantascienza sociologica di Philip Dick. Come viene in mente Marc Augé, che in Che fine ha fatto il futuro? non parla di Dick ma delinea come possibilità per la narrativa a venire quella di una fantascienza legata in qualche modo al mondo di oggi, che sia in grado di esprimerne le tensioni e di vedere nell’attuale le possibilità di ciò che ci aspetta. Che è più o meno esattamente quel che fa Wallace in questo romanzo, che porta alle loro conseguenze possibili alcune delle realtà che abbiamo intorno tutti i giorni. La televisione, la pubblicità, il problema dello smaltimento dei rifiuti. La perdita della vita privata.
La difficoltà della conservazione di un’identità personale, nel chiasmo tra il velo di Joelle van Dyne e la sua vita nella droga e l’Intrattenimento e la storia dei mascheramenti del volto con le videocomunicazioni. Joelle Van Dyne che in un certo senso è l’essenza dell’Intrattenimento.
Così ambientando come Philip Dick la narrazione in un futuro prossimo, Wallace parla del mondo di adesso.
Un mondo di menzogne, un mondo di droga. Dove anche la salvezza dalla droga la si trova drogandosi di tennis, e si esce dalla droga drogandosi con la condizione di emancipazione dalla sostanza, come negli Alcolisti Anonimi. Un mondo che corre verso il momento in cui dilagherà l’Intrattenimento, l’Infinite Jest del titolo, la Droga Assoluta che terrà tutti davanti al televisore fino alla morte. Gente che muore di fame nei propri escrementi senza più alcun desiderio di alzarsi dalla poltrona. Da una parte c’è una comunità di recupero di tossicodipendenti, dall’altra c’è la tossicodipendenza universale dall’Intrattenimento continuo della società dello spettacolo. In mezzo, c’è la droga che invade anche l’Accademia del Tennis, che vorrebbe stare fuori dal mondo ma ripete il mondo esterno quasi in tutti i dettagli.
Come dire che il mondo in cui viviamo trova nella sua distruzione la sua massima aspirazione.
Infinite Jest parla anche della possibilità della Rivoluzione, della distruzione di questo mondo di droga e di televisione, realizzata appunto attraverso la distribuzione universale del veleno dell’Intrattenimento Infinito.
Ma la Rivoluzione è zoppa, va in giro in sedia a rotelle.
E d’altra parte in un mondo così i giusti possono essere solo i più sbagliati. Gente senza le gambe, o un ritardato deforme. E la Rivoluzione non può più avere nemmeno un’ideologia che la sostenga, se non la spinta dell’odio per il mondo così com’è adesso. Che per i difensori del Sistema è solo pura malvagità.
Poi c’è dappertutto nel romanzo il comico che non fa ridere.
Un solo piccolo episodio, per dare una vaga idea. Una donna alla quale è stato trapiantato un cuore artificiale esterno cammina per strada guardando le vetrine. Il cuore artificiale esterno si trova nella borsetta ed è collegato al suo organismo attraverso dei tubi che entrano nel braccio. Un travestito tossicodipendente le scippa la borsetta e corre via e la donna si mette a corrergli dietro gridando, fermatela, mi ha rubato il cuore, provocando le risate divertite dei passanti che pensano di assistere a una scenetta di una storia d’amore alternativa. La donna per un po’ continua l’inseguimento, poi crolla a terra morta. In seguito il tossico travestito fracasserà il cuore artificiale colpendolo ripetutamente con un sasso, e poi lo getterà in un bidone della spazzatura. Il tutto presentato come trascrizione di un articolo di giornale.
Cioè la perdita del senso del confine tra il ridicolo e il tragico, come quando ci fanno vedere alla televisione che sparano in faccia a qualcuno o che scippano una vecchia e lei cade a terra e muore, scene riprese dalle telecamere per strada, sembra Paperissima Sprint e come Paperissima Sprint a guardare un bambino che cade e si fa male, chissà cosa c’è da ridere.
O la faccenda del raschietto per la lingua, tutti che vanno in giro con il raschietto, anzi due raschietti, uno da adoperare e uno di riserva, hanno tutti paura che gli puzzi il fiato quando parlano. Può far ridere, ma la cosa non è tanto diversa dall’assorbente che permette alle donne di non puzzare di urina in ascensore.
La narrazione in Infinite Jest frammenta il suo tempo e i suoi spazi, esplode e poi riprende coesione, e come il mondo della globalizzazione non ha più struttura.
E anche il richiamo a Shakespeare del titolo, si scoprirà che forse vuole indicare che tutto Infinite Jest si richiama a Shakespeare. Perché se come dice Marshall McLuhan La galassia Gutenberg Shakespeare ha simboleggiato l’avvento dell’Epoca Tipografica nella scena in cui Re Lear dispiega la mappa per far vedere alle figlie come dividerà il proprio regno, e Internet e Google stanno diventando sempre più mappe perfettamente sovrapposte al territorio, in Infinite Jest forse David Foster Wallace vuole simboleggiare il crollo di quest’Epoca attraverso le pagine in cui, nello svolgimento del gioco Eschaton i bambini, i bambini che sono come dice McLuhan una popolazione orale che non accenna ad estinguersi, i bambini durante lo svolgimento del gioco cancellano la distinzione tra la mappa e il territorio, e danno il via alla catastrofe. (bamborino)

Con Infinite Jest si raccomanda anche questo libro.

Faccio riferimento all’edizione Fandango perché avevo comperato il libro quando era uscito. Non ho voglia di far la fatica di elencare come al solito i refusi, che in 1500 pagine sono veramente tanti, ma per quel che mi risulta l’edizione Einaudi li ha conservati tutti con il massimo rigore.
Segnalo gli al posto di le a pag.499 e 1090 e i pneumatici nella nota 266, e secondo me poteva valer la pena di spiegare il riferimento al modo di dire anglosassone della pagliuzza a pag.553 e cosa vuol dire sub-rosa a pag. 826 dato che non tutti hanno letto i racconti di Thomas Pynchon, e forse si poteva spiegare anche il riferimento all’albatross della nota 269, che in Italia citare The Rime of the Ancient Mariner non è esattamente come dire quel ramo del lago di Como.
In più, un commento alla nota 24, quella che raccoglie la filmografia di James O. Incandenza. Tra i film di Incandenza, c’è un Pre-Nuptial Agreement of Heaven and Hell, tradotto Accordo Pre-Nuziale di Inferno e Paradiso. Orbene, è evidente il riferimento al famoso The Marriage of Heaven and Hell di William Blake e quindi mi domando innanzitutto perché nella traduzione si siano invertite le posizioni di Heaven e Hell, e inoltre perché Heaven sia stato tradotto Paradiso, quando sarebbe stato palesemente più corretto tradurlo Cielo, tenendo presente che John Milton, per esempio, avrà ben avuto i suoi motivi per intitolare il suo famoso poema Paradise Lost invece che Heaven Lost, e soprattutto perché Giuseppe Ungaretti ha tradotto l’opera di Blake come Il matrimonio del Cielo e dell’Inferno. Oltretutto senza mettere tutto maiuscolo, come si fa per i titoli in inglese ma non si fa in italiano.




Una persona viva non può fare a meno di agitarsi e disperarsi, quando vede come perisce essa stessa e come intorno a lei periscono gli altri. (Anton Čechov, Racconto di uno sconosciuto

2 commenti:

  1. Ecco: questa è una recensione che da una parte mi fa tremendamente sentire in colpa per averlo iniziato (più o meno un anno fa) e averlo abbandonato dopo 150 pagine o giù di lì, e allo stesso tempo mi rincuora. Quando l'ho abbandonato, l'ho fatto ripromettendomi di riprenderlo in mano prima o poi, proprio perché consapevole che il problema era mio e non del libro, né dell'autore. Ma quella cosa della probabile necessità di un terreno fertile per incominciare la lettura la trovo molto vera. O comunque che non sia solo una questione di predisposizione d'animo a contare. Insomma, per arrivare a Infinite Jest devo lavorarci su. E questo post mi ha definitivamente convinto.

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  2. L'opera definitiva sul concetto di dipendenza.
    Per me, un ritratto del presente, più che di un ipotetico futuro.
    Con una speranza: Mario Incandenza.

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