domenica 30 settembre 2012

René Girard


René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. (Bompiani)

Se nella filosofia e nella neurofisiologia contemporanee il dibattito sulla coscienza è in corso da qualche decennio (decennio e non decade, che in italiano è dieci giorni), il problema della coscienza si è posto apertamente, in letteratura, almeno a partire da Fëdor Dostoevskij.
Almeno. Perché in un certo senso già Edgar Allan Poe con The Man of the Crowd e Nathaniel Hawthorne con Wakefield avevano posto se non il problema, le basi per la ricerca. Per uno studio della coscienza nella sua nascita dal rapporto con gli altri.
E infatti, come abbiamo già rilevato in più d’una occasione, in Linguaggio e problemi della conoscenza Noam Chomsky dice che è decisamente possibile – assolutamente probabile, si potrebbe pensare – che si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica.
Menzogna romantica e verità romanzesca è probabilmente la migliore dimostrazione della validità dell’affermazione di Chomsky, poiché qui René Girard utilizza lo studio della narrativa per lo studio della mente umana e di ciò che la muove, e di come questo movimento si sviluppa attraverso diversi contesti storici, cioè diversi contesti della storia del pensiero, indagata attraverso lo studio dello sviluppo della narrativa.
Senza parlare di psicologia, che è appunto ciò da cui René Girard gioiosamente e proficuamente si guarda, evitando così l’errore fondamentale di tutte le psicologie, di prescindere dalla storia del pensiero, ed evitando altresì quella che secondo Viktor Frankl è la loro oscura aspirazione, cioè la tendenza a svalorizzare ogni contenuto spirituale.
E infatti i riferimenti non letterari di René Girard sono ai sociologi, come David Riesman.
Menzogna romantica e verità romanzesca è anche un’opera sul senso del cristianesimo, oltre che sul senso dell’Uomo (pag. 53), perché René Girard parla della trascendenza, quel bisogno che nasce nell’Uomo con il linguaggio grammaticale e con i riti di sepoltura, quell’aspirazione al significato di cui parla padre Ong in Conversazione sul linguaggio.
La trascendenza vista come modo del desiderio, e il desiderio considerato come modo ed espressione del bisogno di trascendenza.
Trascendenza che se è un modo del desiderio, crediamo che possa essere il desiderio di Dio, e il desiderio di tutto ciò che va al di là dell’Uomo, quindi anche l’Arte, o la Conoscenza.
Desiderio che si pone per l’Uomo, tornando a Walter Ong, a partire dal momento in cui il significato si presenta alla mente come qualità della parola e dell’oggetto designato da essa, qualità indipendente che, come dicono Ogden e Richards in The Meaning of Meaning, nella parola acquista poteri soprannaturali.
Se il desiderio è generalmente considerato come un rapporto sostanzialmente rettilineo tra il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato, René Girard scopre che vi è sempre, o molto spesso, la presenza di un altro personaggio, o mediatore, che è in rapporto sia con il soggetto che con l’oggetto, cioè il soggetto desidera secondo il desiderio del mediatore, che in qualche modo imita, vedi La violenza e il sacro, e si configura così la condizione del desiderio triangolare, o della mediazione.
Che può essere mediazione esterna o mediazione interna, secondo la vicinanza del mediatore al soggetto, che desidera essere come il mediatore. Come si può vedere nelle numerosissime storie che racconta Dostoevskij, di uomini che in un certo senso si fanno sostituire da altri uomini nel rapporto con le donne che amano, altri uomini che sono ciò che essi vorrebbero essere.
Il mediatore è tanto più vicino quanto più è reale. Amadigi di Gaula, il modello di Don Chisciotte, è del tutto esterno a Don Chisciotte, è un eroe mitico lontano da lui, le eroine da romanzo di Emma Bovary sono già più vicine a lei, le somigliano di più. Si arriva ad una condizione intermedia in Stendhal, Julien Sorel di Il rosso e il nero ha Napoleone come mediatore esterno e i personaggi che si trova intorno come mediatori interni.
Fino ad arrivare all’esplosione completa della mediazione interna con Proust e con Dostoevskij.
Proprio per il suo rapporto con la deviazione dell’aspirazione alla trascendenza, che invece di dirigersi verticalmente verso Dio o comunque verso un’entità metafisica superiore, si rivolge verso le persone reali dei mediatori, René Girard chiama la mediazione di volta in volta desiderio metafisico e male ontologico.
Così questo libro è la descrizione del processo di trasformazione del rapporto con gli altri e quindi dell’idea di sé stessi che si è andata sviluppando con la trasformazione del rapporto con Dio e con la trascendenza, processo di trasformazione che René Girard segue attraverso una nuova comprensione della grande narrativa.
Comprensione che parte da Cervantes e arriva fino ai nostri giorni, mentre i mediatori interni diventano sempre più vicini e sempre più uguali a colui che desidera, fino alla banalizzazione e alla paralisi del desiderio, trovando nell’infrenabile dilagare della mediazione interna anche la ragione di quello che Girard chiama il sonnambulismo della moderna narrativa americana, in cui il dilagare del desiderio secondo gli altri, con la pubblicità e i nuovi media (vedi La sposa La sposa meccanica e Gli strumenti del comunicare di Marshall McLuhan), è diventato l’impossibilità di considerare sé stessi come qualcosa di diverso dal nulla. Impossibilità peraltro già presente, anche se non apertamente, in Memorie del sottosuolo, e che compare pienamente, prima che negli scrittori americani, in Anton Čechov, autore trascurato da René Girard, ma che un sonnambulo grandissimo come Raymond Carver considerava il suo punto di riferimento.
La trascendenza verticale nasce con il linguaggio, la trascendenza deviata si innesta probabilmente sulla rivalità mimetica di cui Girard parla in La violenza e il sacro, che è un fenomeno collettivo e antecedente alla scrittura, proveniente dal modo di apprendere caratteristico dei primati, attraverso la competizione e l’imitazione. Poi la trascendenza deviata dilaga innestandosi con l’individualismo moderno generato dalla tipografia, e non a caso Girard la fa iniziare con l’inizio del romanzo.
La scrittura, rendendo possibile l’esternalizzazione e la visualizzazione dei processi di pensiero, ha generato la deviazione della trascendenza, la tipografia l’ha consolidata e l’ha moltiplicata rendendola riproducibile in un numero infinito di esemplari, tanti quanti gli uomini, e ha fatto esplodere il desiderio e il rapporto con gli altri fino alla polverizzazione.
Così René Girard fa cominciare la deviazione della trascendenza proprio con il primo vero grande romanzo, Don Chisciotte, cioè sostanzialmente con la tipografia, e un possibile approfondimento potrebbe venire dagli studi di cui abbiamo tante volte parlato, Oralità e scrittura di Walter Ong e La galassia Gutenberg di Marshall McLuhan, cioè potremmo arrivare a pensare che oltre a generare l’individualismo la tipografia abbia moltiplicato le possibilità di descrizione di sé degli individui, le possibilità di delineare diverse coscienze accanto alla nostra coscienza individuale, la possibilità di pensare l’Altro non solo come esterno ma come elemento stabile della nostra mente, con la possibilità tipografica di prendere in considerazione l’Altro, nel suo essere non tanto una presenza fisica ma un modo del pensiero, come un’entità di pensiero che non è più solo pensabile ma diventa visibile, ora che il pensiero diventava visibile e riproducibile e moltiplicabile all’esterno in infinite copie perfettamente identiche.
E infatti già all’inizio di Menzogna romantica e verità romanzesca René Girard dice che la tipografia moltiplica in modo prodigioso la possibilità del connubio tra due coscienze lucide e contribuisce così a generare le illusioni, secondo me forse illusioni dell’esistenza di una eventuale coscienza intermedia che da questo connubio possono nascere, intermedia e localizzata in uno spazio mentalmente visualizzabile, che potrebbe generare un’evidenza quasi fisica del desiderio condiviso con il mediatore, mentre in seguito la tipografia unendosi con i nuovi media riesce a rendere il connubio sempre più diffuso e quindi in un certo senso a banalizzarlo, e qui arriva la mediazione interna come esperienza totale, vedi quanto detto sopra a proposito della pubblicità.
Perché il problema della mediazione interna secondo noi, attraverso la possibilità tipografica della visualizzazione del pensiero, diventa il problema dello spostamento e della concretizzazione del pensiero, cioè della visualizzazione della coscienza, che in un mondo di confronti moltiplicati e continui diventa coscienza in quanto consapevolezza della propria insufficienza e del proprio scarso valore, vedi di nuovo Memorie del sottosuolo, e il confronto con gli altri diventa la convinzione della loro superiorità e della loro felicità, in un contesto in cui agli altri vengono attribuite le invidiabili qualità superiori che sempre si attribuiscono al mediatore, specialmente quando questo è molto vicino, fino ad essere praticamente identico al soggetto, di cui condivide i desideri.
Condivisione felicemente impossibile se il mediatore è esterno e lontano come Amadigi di Gaula per Don Chosciotte, che infatti compie le sue imprese senza farsi rodere dall’invidia.
A questo punto si può rilevare che René Girard, trascurando la prima parte del testo di Dostoevskij, non coglie completamente un aspetto secondo noi essenziale di Memorie del sottosuolo, che è appunto l’apparizione in letteratura del problema della coscienza.
Dostoevskij è un genio e un artista e come tutti i grandi artisti comprende i germi delle cose prima che si manifestino completamente.
In questo caso, trovandosi a vivere in una società che attraversava un’epoca di crisi tra il feudalesimo e il capitalismo (la servitù della gleba in Russia fu abolita il 12 aprile del 1861), partecipa di enormi tensioni sociali che lo portano a sentire i profondi cambiamenti che si stanno attraversando nelle definizioni soggettive che gli individui sono in grado di dare di sé stessi, definizioni che se si riferiscono a sé, si riferiscono automaticamente agli altri, identici.
Questa, di una condizione particolare di tensioni economiche e sociali, potrebbe essere la spiegazione della comparsa, con altre modalità, del problema della coscienza nella letteratura americana, che aveva anch’essa a che fare con le tensioni tra feudalesimo e capitalismo, tanto che l’abolizione della schiavitù data dal 1 gennaio 1863.
Potrebbe essere questa la motivazione dell’intollerabile frignare della prima parte di Memorie del sottosuolo, che se la rivalità triangolare è il desiderio di essere come l’altro, il mediatore, ormai identico al soggetto e appunto completamente polverizzato in un mondo di individui identici e con gli stessi identici desideri, è diventato parte dell’individuo stesso, e quindi il dolore interiore non può essere vissuto se non attraverso gli altri, come l’uomo del sottosuolo dice apertamente quando parla del mal di denti.
Ma nello stesso punto compare in letteratura il rifiuto di riconoscere negli altri la stessa profondità di coscienza che riconosciamo a noi stessi. René Girard parla anche di Jean-Paul Sarte, e ci si può domandare se il Roquentin di La nausea sia in questo vicino all’uomo del sottosuolo.
Problema della coscienza che, nella nostra epoca di consolidamento della perdita della coscienza individuale e di avviamento verso una possibile coscienza planetaria, vedi Teilhard de Chardin, scompare completamente nelle opere dei minimalisti.
Rimane da rilevare, di questo studio grandioso, che René Girard porta la sua analisi del desiderio secondo l’altro fino ad illustrarne la natura nei cambiamenti dell’ideologia e del comportamento delle aristocrazie al sorgere del capitalismo moderno, quando lavorare e mostrarsi produttivi fu proclamato come valore anche da una classe che fino a poco tempo prima aveva ritenuto disdicevole ogni forma di attività redditizia, e che ora voleva diventare anch’essa come la classe dei suoi nuovi rivali. Discorso che verrà esplicitato completamente dal Principe di Salina in un altro capolavoro della letteratura, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

E non si ferma qui. Perché se in La violenza e il Sacro si era già occupato del complesso di Edipo, in quest’opera René Girard arriva a dar conto della fissazione delle psicologie sull’importanza del rapporto con i genitori indicandolo, a proposito della Combray di Marcel Proust, come una possibile frequente modalità di mediazione esterna, di cui purtroppo non studia le variazioni in corso attualmente, nella condizione sempre più diffusa di una organizzazione famigliare costituita esclusivamente da genitori e figli, in un mondo che sempre di più vuole paradossalmente responsabilizzare di tutto genitori completamente azzerati dai mezzi di comunicazione, e che rischiano di diventare mediatori esterni esposti a un confronto ridicolizzante con i mediatori interni della pubblicità e della televisione, con il risultato di sempre più intense angosce generate dalla confusione e dall’ambivalenza di una ulteriore comunicazione a doppio legame
Insomma, alla fine forse si potrebbe dire che la sostanza del discorso di René Girard è che l’Uomo a un certo punto comincia a credersi un dio, e così ineluttabilmente è portato a credere che anche i suoi simili siano dei, e li adora, fino a perdersi e ad annullarsi completamente.
Perdita e annullamento che oggi sono quasi quotidianamente sotto i nostri occhi, nell’uso pesante e continuo della mediazione interna nella pubblicità, che ci mostra dei coglioni qualsiasi come divinità alle quali dovremmo cercare di somigliare, e somigliar loro in concorrenza tra di noi, occupati tutti a fare la stessa cosa credendo di fare ciascuno una cosa unica ed esclusiva, nella ripetizione quotidiana di un eterno presente. Ora che, come dice René Girard, non c’è più  Dio, né re, né signore che ci ricongiunga all’universale, e per sottrarci al sentimento del particolare, desideriamo secondo l’Altro, e scegliamo dèi di ricambio, perché non possiamo rinunciare all’infinito.  (bamborino, allemanda)

A pag. 28 c’è un ha invece di abbia, veramente orribile. A pag. 97 c’è sognamo, a pag. 107 c’è un successo che dato che si tratta di una successione dinastica forse andava meglio succeduto, a pag. 140 c’è priva invece di privo, a pag. 191 c’è il pseudo-oggetto.  




Solo l’umano è divino. (Hermann Broch, La morte di Virgilio)

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