domenica 16 settembre 2012

Sándor Márai


Sándor Márai, Le braci. (Adelphi)

Lo scenario è il seguente.
Quasi dieci anni fa, una sera a cena nel profondo della Padania, facciamo a Concorezzo. Fuori ci sono parcheggiati un paio di fuoristrada, una BMW. Si mangia, si parla della macchina nuova che il padrone di casa ha appena prenotato, una Subaru tipo rally. Sono tutti sui quarant’anni. La vivace moglie del proprietario della BMW dice non so quante volte, almeno sei, che la Subaru è incollata, veramente incollata alla strada, ti dico incollata. La signora si muove di qua e di là, ha un bel culo, una muscolosità scattante, in qualche modo mi infastidisce che per via dei capelli crespi mi ricordi il mio amore di quei giorni, molto più giovane di loro e moltissimo più giovane di me, che non avevo potuto portare alla cena perché con marito e due bambini piccoli c’è poco da uscire alla sera, ma d’altra parte mi rendo conto che quella donna mi sembra di vederla dappertutto, e guardo ancora la quarantenne che si agita, faccio un confronto mentale e penso chissà come sarà a letto, guardo suo marito, 320 touring, chissà che sesso si fanno ad ogni avanzamento di carriera.
Credo che sia stata la forza di questo pensiero, il rammarico di non avere lì la mia fata e di non poterla mostrare a tutti quei coglioni, a rendermi indimenticabile la serata.
Dopo cena dal televisore acceso si sentono le note del primo preludio di Il clavicembalo ben temperato, si riconosce subito la mano, è l’inizio di Trentadue piccoli film su Glenn Gould, poco dopo qualcuno domanda che cosa c’è alla tele, un altro risponde che forse è un film, ma già dall’inizio si capisce che dev’essere un mattone. Spengono.
Nella conversazione successiva qualcuno parla di Le braci e dice che è bellissimo, la signora vivace dice subito che è uno dei libri più belli che ha letto nella sua vita. Uno dei tre o quattro compreso quello che deve ancora finire di colorare, penso io.
Natale periodo di regali. Le braci è stato forse l’unico libro di cui mi siano state regalate due copie, tutte e due regalate da zotici impareggiabili. Tra i miei amici, non sono stato l’unico a riceverlo in regalo due volte. Forse lo si poteva comperare anche nei Blockbuster, come La versione di Barney di Mordecai Richler. Due must intellettualistici di tutti gli sfigati in soldi, che leggono quel che gli dice la recensione intellettualistica del momento. Così per leggerlo ho aspettato dieci anni.
E se ne aspettavo venti andava bene lo stesso. Anche se devo riconoscere che c’è stato un primo breve periodo di noia pesantissima, lo sforzo di scimmiottare Henry James si condensa come una nebbia di parola in parola e si solidifica in una parentela stretta con Hermann Hesse, ma dopo la fatica iniziale sono stato premiato perché la lettura è gradualmente diventata abbastanza spassosa.
Quindi passo al commento, senza farmi il problema di metterci dello spoiler, come si dice oggi alla trendy, perché questo post non vuol certo invitare alla lettura.
Parafrasando il titolo di un film di qualche anno fa, lo si potrebbe intitolare La cena del cretino, in quanto la storia consiste appunto in una cena a casa di un cretino, non solo cretino ma anche cornuto, che dopo quarant’anni che non si vedono ha invitato a cena l’amico con cui era andata a letto la moglie. Perché, primo fiore del tritume prevedibile di questo romanzo, abbiamo qui la solita storia, oh profondamente commovente storia, del tuo migliore amico, l’amico di una vita, che ti scopa la giovane moglie.
Il cretino era ineluttabilmente destinato alle corna dal fatto che si è scelto la moglie non perché gli piace o per amore ma, lo dice lui stesso, con la cura con cui un collezionista sceglie il pezzo più raro e perfetto della sua collezione (ma quale collezione, si capisce subito che è uno che ne ha vista pochissima), cioè una ragazza povera che lo sposa per i suoi soldi, ma non gli basta e nei primi giorni del matrimonio le ha regalato un diario perché ella ci scriva tutti i suoi pensieri più nascosti e poi glielo faccia leggere, motivo per il quale il cretino e ineluttabilmente cornuto è certo che la moglie per lui non ha segreti. Nella pioggia incessante di luoghi comuni, la moglie ovviamente è come un giovane animale selvaggio di sentimenti indomiti. E naturalmente quando è morta, ovviamente nel fiore degli anni, ha lasciato al marito la gioia di pronunciare, con l’ultimo sospiro, il suo nome invece di quello dell’amante.
La prolissità del cretino, che rivede la sua vita con l’amico cornificatore, è sostenuta dalla prolissità del narratore, che come Hesse spiattella sentimenti ed emozioni in un’enumerazione spudorata e ci delizia di similitudini pompose quanto assurde e/o comiche, tipo il fico pluricentenario simile a un saggio orientale che ormai sappia raccontare solo storie estremamente semplici, o il silenzio pari a quello che cova all’interno di una bomba un minuto prima dell’esplosione (e dieci minuti prima cosa c’è nelle bombe, un’orchestrina?) o ancora, come se la musica avesse lanciato nello spazio un mitico cocchio alato tirato da destrieri invisibili. Ma c’è anche un bel pezzo da terza elementare, cioè il bambino che giaceva sul letto, bianco come un cadavere.
Poi abbiamo le acute osservazioni sulla divisione dell’umanità in due categorie, e all’inizio del capitolo 16 abbiamo bellissime note filosofiche sul rapporto tra gli uomini e il loro destino, bellissime soprattutto perché il cretino cornuto dice prima una cosa e immediatamente dopo il suo contrario.
Quando non troviamo aforismi profondissimi come che chiunque sopravviva a qualcuno commette un tradimento, o che chi vuole la verità deve iniziare la ricerca da sé stesso.
E qui veniamo al punto, cioè a quella che secondo me è la ragione del successo di questo libro presso una certa categoria di persone. Perché io sono sempre stato convinto di non avere in me stesso assolutamente niente, se non quello che ci mettevo dentro di volta in volta con la riflessione su quel che leggevo e da qui su quel che avevo intorno. E figuriamoci la verità, sono d’accordo con Jonathan Littell che in Le Benevole dice che la ricerca della verità è una delle cose indispensabili alla vita dell’essere umano, come l’aria, il bere il mangiare e l’evacuare e che tutto il resto è facoltativo, ma la verità non si cerca certo guardandosi dentro ma guardandosi in giro.
E il massimo di questa visione del mondo e di sé stessi Sándor Márai ce lo dà quando il cornuto si vanta che suo padre non leggeva libri ma aveva imparato tutto con l’esperienza e la riflessione solitaria.
Ecco.
Trovare un libro che, in toni di alta letteratura alla Hermann Hesse (non per niente lo scrittore più venduto di tutti i tempi) che qui raggiungono forse il massimo nella descrizione dell’ospedale ad Arco, ti dice che i tuoi personali pensieri possono essere già abbastanza profondi anche senza che ci lavori sopra e cerchi di imparare qualcosa, e che basta che ti siedi sulla tazza e guardi il muro che sei già sulla buona strada per capire tante cose, ecco, questa per molti è una grande consolazione. E una bella rassicurazione.
Il cornuto aveva invitato a cena l’amico per potersi finalmente vendicare. E pare che la vendetta si risolva poi semplicemente nell’avergli appioppato una notte della sua incontenibile verbosità, che termina con l’affermazione che per dar senso a una vita può bastare la passione per una donna, che forse lo sapevamo già e tanti altri l’hanno fatto capire senza bisogno di dirlo, per esempio ancora Henry James, o Georges Simenon.
Ma il lettore medio di Hermann Hesse le cose se non gliele sbatti in faccia non le capisce, e così per arrivare a questa grande e profonda verità c’è toccato leggere ogni genere di scemenze anche su come mangiano i vecchi, fino alla più grossa di tutte, che la birra austriaca è la migliore del mondo. (blifil)




Noi tutti sperimentiamo ogni sorta di cose per poi spezzare di continuo questi esperimenti, gettiamo tutt’a un tratto decenni di esistenza nel mucchio dei rifiuti. (Thomas Bernhard, Il soccombente)

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