domenica 11 novembre 2012

Jorge Luis Borges


Jorge Luis Borges, Finzioni. (Einaudi)

Esistiamo nel linguaggio, e nel linguaggio ci possiamo anche perdere.
Lungo percorsi fatti di variazioni di significato, di costruzione e di perdita di definizioni e di rapporti e di collegamenti tra queste definizioni e tra lo spazio e il tempo (Tlön, Uqbar, Orbis Tertius), nell’inseguimento di una identità comune a tutto ciò che è diverso o forse non è diverso (L’accostamento ad Almotasim), nella creazione interiore di ciò che è già esistente e ci porta a perderci come individui (Pierre Menard, l’autore del “Chisciotte”) fino alla creazione di un inesistente in cui ci ripetiamo nella nostra stessa inesistenza (Le rovine circolari), per poi perdere la certezza di poter sapere cosa è volontario e cosa è involontario e scoprire la difficoltà di distinguere tra casuale e causale (La lotteria a Babilonia), mentre nell’Esame dell’opera di Herbert Quain le certezze possibili si riporteranno nel presente e le incertezze saranno nelle plausibilità generative del passato, e verrà anzi negata al presente la possibilità di esistere. Ma l’esistenza si svelerà come infinita ripetizione di spazi indifferenziati (La biblioteca di Babele) e la possibilità di una differenza, la vana possibilità di una qualsiasi articolazione di diversità della realtà sarà ancora nella ripetizione del linguaggio, la frammentazione della parola nei suoi minimi elementi costitutivi alfabetici infinitamente ricombinati, in un dominio fenomenico che oramai è totalmente occupato dalla scrittura e dalla tipografia e qui la differenza tra il causale e il casuale si manifesterà in una diversa disposizione di un carattere di stampa, e in questa espansione totale di combinazioni alfabetiche diverse ma sostanzialmente tutte uguali (torna in mente L’accostamento ad Almotasim) e disposte in spazi identici troveremo una fondamentale predizione della Rete che ricombina ogni parola e ogni discorso negli spazi ripetuti dei computer. Il giardino dei sentieri che si biforcano chiude la prima parte dell’opera con un’altra predizione visionaria, dell’immobilizzazione della variabilità dell’illusione del tempo, che è come la presenza continua degli oggetti mutevoli della Rete, e che forse si apre a un senso solo nell’atto della morte.
Nella seconda parte Ireneo Funes (Funes, o della memoria) è Internet. Funes è paralitico, vive su un letto, fermo nello spazio, e in questo spazio fermo vede tutto, si accorge di tutto, persino del cambiamento del colore di una foglia nel passare della stagione, e ricorda tutto. Al punto che gli è in qualche modo inibita la possibilità del pensiero. Siamo nel 1944 e nella mente dell’artista c’è già questa mostruosità che è il nostro presente e che ci porterà a chissà quale futuro. Un futuro che forse Borges comincia a svelare nei racconti che seguono. In La forma della spada la perdita dell’individuazione è nel confondersi dei soggetti, nel Tema del traditore e dell’eroe la realtà diventa narrazione e la narrazione diventa realtà. Così in La morte e la bussola il falso diventa vero, lo dirà vent’anni dopo anche Guy Débord in La società dello spettacolo che nel nostro mondo il vero è un momento del falso, e qui una direzione si trasforma nel suo opposto fino a diventare, nel finale della storia, una linea retta che unisce il vero e il falso in un unico percorso indifferenziato e indifferenziabile. Poi in (Il miracolo segreto) ricompare il tempo, che viene mostrato per quello che è, nella sua assoluta soggettività. Così il discorso arriva alla fine (Tre versioni di Giuda) e gli opposti si fondono. Dio diventa l’Uomo, e come Uomo è Dio, la stessa confusione che scoprirà René Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca, e il Bene e il Male sono la stessa cosa, nell’indefinibilità di ogni verità possibile, che si stabilisce come indeterminata e indeterminabile.
Così finisce questo capolavoro di Jorge Luis Borges, che da un racconto all’altro mantiene il ritmo elegante di danza e la densità riflessiva di un’aria di Bach.
Forse Borges non sapeva di aver scritto un’opera unitaria che scorreva nel pensiero del futuro. Forse gli artisti non sanno mai niente e sanno sempre tutto. (bamborino)

Segnalo nella traduzione di Franco Lucentini (che bel nome Franco, così semplice e oggi così raro) una bellissima sconsiderazione a pag. 36 e una altrettanto bellissima trascuraggine a pag. 100.
Unico errore nella mia copia, che è un esemplare della collana “Scrittori tradotti da scrittori” della seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, alla fine di pag. 107 Colorada comincia correttamente in corsivo con Colo ma va a capo a pag. 108 in normale, rada. 




Io mi sento me stesso solamente quando sono solo. (Peter Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile)

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