domenica 26 febbraio 2012

Nicholas Carr

Nicholas Carr, Il lato oscuro della Rete. (Rizzoli Etas)
Il titolo in italiano è ingannevole e nasconde uno degli aspetti principali di questo libro, che è di essere una bellissima storia dello sviluppo industriale e del rapporto dell’uomo con le tecnologie. A partire dall’invenzione dello stoppino, transitando poi per il ferro da stiro.
E in questa storia delle tecnologie Nicholas Carr scrive anche una sua storia del capitalismo.
Marshall Mc Luhan ci ha mostrato come la distribuzione universale dell’energia elettrica sia stata l’inizio dell’epoca della simultaneità, e Nicholas Carr ci mostra come l’invenzione e gli sviluppi di nuove tecnologie siano legati a vasti cambiamenti sociali, e così impariamo da questo libro secondo me indispensabile quali sono stati gli effetti dell’elettricità e della sua distribuzione in rete come un servizio pubblico, per quel che riguarda l’organizzazione sociale, gli stili di vita di tutti e perfino l’istruzione. Io per esempio, o presempio come diceva la mia mamma, io non ci avevo mai pensato, che la nascita di una classe media e della diffusione dell’istruzione sono stati un prodotto della distribuzione in rete dell’energia elettrica.
Bisogna porre la massima attenzione a tutto, in questo libro, perché Nicholas Carr secondo me non è sempre consapevole della vastità della portata di questo suo studio e delle sue affermazioni. Per esempio dopo che avremo visto come l’elettricità ha condotto alla nascita della classe media, potremo fare la nostra riflessione sul fenomeno attuale della sempre maggiore distanza tra i redditi dei ricchi e quelli dei poveri, di cui Carr indica senza dirlo una spiegazione nel modo particolare di Internet di generare profitti, vedi il caso clamoroso di YouTube.
Ed ecco che siamo arrivati alla Rete, come nel titolo.
Ma prima faremo un giro nella storia del computer, la cui origine non parte dalla necessità di fare calcoli difficili, ma dal bisogno di rendere più efficiente e veloce il trattamento dei dati del censimento americano del 1890, e quindi è fin dalla sua nascita una macchina che oltre a obbedire fa comunque qualcosa di interattivo e che sconfina nell’esistenziale.
Passeremo dalla macchina a schede perforate di Herman Hollerith ai macchinoni della IBM e poi ai pc portatili e arriveremo a Internet. E qui il discorso comincerà a farsi pesante.
A partire dal 1999, con Napster.
Che è l’inizio della condivisione in Rete, ovvero è il momento della manifestazione completa della condizione del Villaggio Globale. E a pensarci bene Napster segna senza volerlo anche un punto fondamentale del collasso dell’Epoca Tipografica, con l’inizio della messa in dubbio del diritto d’autore, che è uno dei prodotti fondamentali di quel periodo storico. Ma Nicholas Carr non fa nessun riferimento, in tutto il suo libro, a Marshall McLuhan, e forse fa il furbo facendo finta di non saperne niente, ma forse è così geniale da essere arrivato da solo a tutto. Che però sembra strano, per uno che si occupa di queste cose, e che se ne occupa con questo acume e questa profondità. Da Napster passiamo al fenomeno della virtualizzazione, che porta a una ridefinizione del rapporto tra hardware e software e da qui arriviamo al World Wide Computer e a quello che sta succedendo con Google, che mette a punto degli algoritmi per personalizzare sempre di più le nostre ricerche, e arriviamo a scoprire che per quanto si voglia rimanere e si creda di rimanere anonimi, lo studio dei rapporti tra Internet e il nostro computer permette di identificarci e di rintracciarci con facilità. Che è come dire che comunque lasciamo in Internet un segno del nostro passaggio, e che quindi ogni volta che entriamo in Rete con il nostro interagire cambiamo qualcosa.
Poi avremo una analisi puntuale del problema del cosiddetto spacchettamento dei contenuti, che può portare a una completa frammentazione del nostro contatto con la realtà, e secondo Carr presenta il pericolo di favorire una sempre più approfondita radicalizzazione ideologica e un sempre più spiccato raggruppamento tra le persone. E qui potremo imparare qualcosa sugli interessantissimi studi di Thomas Schelling, premio Nobel per l’Economia 2005.
Si parla anche della pubblicità e del lavoro che senza accorgercene facciamo in Internet perché questa sia sempre più accuratamente mirata, come una lancia con cui, ha detto un pubblicitario americano, ci trafiggiamo da soli.
Cioè senza che ce ne rendiamo conto, stiamo diventando noi stessi una parte della Rete, punti di intersezione e di smistamento del flusso informatico planetario.
Mi rendo conto di non essere sufficientemente chiaro, ma una descrizione anche superficiale e sommaria dell’affascinante complessità di questo libro è impossibile, e tra l’altro Carr compie la meraviglia stilistica di non dividere le parti storiche del testo dalle parti di descrizione e di commento delle condizioni attuali, creando un amalgama che non lascia un momento di respiro né il minimo intervallo di noia.
Mi limito a segnalare, nel finale, l’apertura al problema di quelle che potrebbero essere le modificazioni della coscienza individuale degli esseri umani, modificazione verso la quale lo staff di Google si muove con entusiasmo ma che lasciano piuttosto perplessi gli altri. Che tuttavia, per quanto l’idea di una umanità che riesce a pensare solo in dipendenza da e con le modalità fornite dal computer lasci perplesso e terrorizzato anche me, è una di quelle cose nei cui confronti non c’è niente da fare, come non c’è stato niente da fare se non beccarsi il cambiamento delle coscienze che c’è stato con l’invenzione dell’alfabeto fonetico e quello che c’è stato poi con l’invenzione della tipografia a caratteri mobili, cioè chi vivrà vedrà e amen.
Anche se il cambiamento epocale che sta per arrivare e forse è già arrivato ma non ce ne siamo ancora accorti questa volta sarà diverso dai cambiamenti del passato, perché la Rete planetaria del World Wide Computer è continuamente modificata dal rapporto con gli utilizzatori e modifica a sua volta gli utilizzatori, e quindi in un certo senso si sta già comportando come una mente.
Soprattutto, nella misura in cui praticamente contiene una descrizione di tutta la realtà, Internet sta diventando la mappa delle mappe, e forse è una mappa che avrà caratteristiche tali da sostituirsi al territorio. Per fare un esempio, non è facile dire se Facebook è una mappa o un territorio, cioè se è il luogo dell’interazione o è l’interazione stessa.
Ricordiamo che Marshall McLuhan comincia La galassia Gutenberg (qui) con re Lear che dispiega una mappa e ci domanderemo quali rapporti avranno con la realtà e con sé stessi, cioè che tipo di coscienza avranno coloro che sono nati nelle nuove condizioni in cui la mappa si confonderà sempre di più con il territorio e anzi diventerà il territorio stesso.
Quella che chiamiamo coscienza forse è un artefatto tipografico, è il prodotto di quella possibilità di pensare a sé stessi nel modo dell’intenzionalità, l’intenzionalità dei filosofi che secondo il Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano è il riferimento di qualsiasi atto umano a un oggetto diverso da sé. La coscienza è cominciata con l’alfabeto e la tipografia l’ha fatta esplodere nella forma che abbiamo conosciuto per qualche secolo, e che probabilmente sta già cominciando a cambiare.
E probabilmente il problema della nuova coscienza dell’oralità secondaria computerizzata, che come aveva previsto Marshall McLuhan si manifesta essenzialmente come simultaneità totale, è che questa nuova coscienza non riflessiva e diversamente consapevole come probabilmente era la coscienza del villaggio primitivo prima della scrittura (vedi anche  Oralità e scrittura di Walter Ong) si realizzerà nel Villaggio Globale del World Wide Computer, e se qualcuno farà in modo di mantenere una coscienza più riflessiva e tipografica si potrà arrivare a un mondo diviso in servi e dominatori.
E se è possibile che nel Villaggio Globale ci sarà sempre meno bisogno del denaro e cambieranno totalmente i rapporti economici, teniamo presente che anche nell’antico Egitto il denaro non c’era, e non è che le classi subalterne se la passassero poi tanto bene.
Anche se non è facile prevedere i possibili sviluppi di un movimento indefinibile ed elusivo come l’Open Source, né di quello che è successo in Egitto.
Ma adesso non si può sapere.
Nicholas Carr chiude dicendoci che qualcuno pensa che in fondo l’universo non sia altro che un immenso computer che elabora informazioni. Forse.
Ma è più probabile che anche questa visione faccia parte dell’utopismo computerizzato, che si potrà trovare a fallire come l’utopismo di liberazione universale che aveva accompagnato la distribuzione generalizzata dell’elettricità. E che la realtà e il nostro cervello non funzionano come elaboratori di informazione ce lo stanno mostrando la fenomenologia e la neurofisiologia (vedi nel blog,  Humberto Maturana,  Jonah Lehrer, Maurice Merleau-Ponty,  Vittorio Gallese).
Quindi teniamo ben presente che un computer è in grado di creare problemi al campione del mondo di scacchi ma non è in grado di fare una cosa che un bambino di tre anni fa benissimo se nasce in una famiglia italiana con una colf che gli parla in spagnolo, cioè il bambino impara due lingue con la stessa facilità con cui impara a camminare, cioè questo bambino di tre anni sa fare una traduzione, e provate a leggere una traduzione di Google per constatare cosa possono fare i computer in questo campo, e magari vi viene anche in mente che conoscete anche voi qualche bambino che a tre anni fa già giochi di parole. Che è come dire, e l’ha detto Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus, che la logica matematica non è una forma di pensiero.
Cioè è una forma di ragionamento, ma non di pensiero.
I computer non sono ancora riusciti ad elaborare la disposizione sintattica dei significati, né a produrre frasi che generano ricorsivamente altre frasi con un collegamento sensato al significato.
La capacità di produrre linguaggio ce l’hanno solo gli uomini. E il pensiero è linguaggio (vedi sempre Humberto Maturana). Quindi possiamo sperare che il linguaggio sia la nostra salvezza, che ci ha reso superiori alle bestie e forse ci conserverà superiori alle macchine.
E il World Wide Computer, forse, è l’inizio della Noosfera della Totalizzazione di cui parla  Pierre Teilhard de Chardin. (bamborino)
A pag. 35 c’è un disfasse che fa coppia con il disfando a pag. 119, che li segna in rosso anche il programma di scrittura, a pag. 168 c’è il ciberspazio che poi fa coppia con il ciberterrorismo a pag. 173, che sarei d’accordo anch’io di scrivere ciber invece di cyber, ma oramai si scrive così e amen, e a pag. 204 c’è un perdipiù, anche questo segnato rosso da qualunque computer. Poi c’è un comico “primo ma non l’ultimo a pag. 89” e un brutto sta invece di stia a pag. 168 e a pag. 224 forse era meglio dire mappe invece di cartine, che mi hanno fatto venire in mente, di primo acchito, le Rizla.
Ma segnalo a pag. 63 uno dei rari casi in cui sta bene l’anglismo esaustivo, a pag. 198 un correttissimo e per me entusiasmante uso del termine aggeggio, oramai caduto in disuso.
Inoltre mi domando se sia da considerarsi definitivamente stabilito che Internet è femminile e tag maschile. Perché se per Internet, che è detta anche la Rete, il femminile mi sembra giusto, non mi piace affatto il maschile per tag, che in italiano vuol dire etichetta.
E chiudo con una lode quasi commossa alla magnifica robusta qualità della rilegatura.
La gente non esiste, non è mai esistita. (C. S. Lewis, Diario di un dolore)

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