venerdì 18 maggio 2012

Claude Lévi-Strauss


Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici. (il Saggiatore)

In Conversazione sul linguaggio Walter Ong  dice che il documentario è in un certo senso il resoconto più soggettivo che esista, in quanto la presenza di una trama narrativa rende l’esposizione meno soggettiva e più esterna a colui che scrive.
E Tristi Tropici, come è scritto sulla quarta di copertina, è un diario di viaggio. Definizione che può anche andar bene. Ma la domanda è, quale viaggio. Perché la dimensione soggettiva, in questo resoconto scientifico di studi etnografici, è più che preponderante.
Tristi Tropici è il viaggio totale. Attraverso l’Uomo, attraverso la Storia.
Un viaggio che comincia negli spazi ristretti di una piccola nave che aveva posto per sette passeggeri e ne portava invece trecentocinquanta, tra cui un ebreo che va in giro con un Degas nella valigia, e che sarà solo il primo dei personaggi affascinanti che Claude Lévi-Strauss ci presenterà nel libro.
Attraverso un mondo che si confronta continuamente con sé stesso, con quello che è stato, con quello che è e con quello che potrebbe essere.
E veniamo a sapere che la globalizzazione dell’India era già molto avanti negli anni Quaranta, e che in Brasile si usava raccogliere negli ospedali gli abiti dei vaiolosi per appenderli agli alberi con altri regali lungo i sentieri percorsi dagli indigeni, che furono sterminati anche in questo modo.
Passeremo nelle infinite difficoltà dei fiumi dove ad ogni rapida bisogna fermarsi e scaricare e ricaricare la piroga, nelle strade dove il camion è sempre sul punto di rovesciarsi, nello spessore del silenzio e dei colori della foresta. Nel tumulto delle città, nell’aridità bruciante della savana, nelle piaghe sulla schiena dei buoi che tirano i carri degli esploratori. Nei gesti e nel cibo dei selvaggi, nello sporco umido e nella fatica degli avamposti dell’uomo bianco.
Da Parigi all’India all’Amazzonia. L’università, le botteghe dove si fanno gli acquisti che preparano il viaggio, Calcutta, la foresta.
Il viaggio nel tempo, dalla preistoria agli imperi orientali al colonialismo. Il viaggio nei dettagli della vita degli artigiani, dei cacciatori, dei contadini, degli uomini che raccolgono il caucciù. Nella costruzione e nel disfacimento delle città. Nei minimi dettagli delle procedure della miseria quotidiana, degli oggetti, dei gesti, delle voci. Nell’analisi strutturalista di organizzazioni esistenziali in cui la pianta dei villaggi condivide il senso con lo sviluppo dell’individuo nelle sue diverse età e con i tatuaggi e con i ruoli sociali di uomini e donne e che rimandano alla ricerca di un senso quotidiano che la modernità europea, nel tempo, ha perduto irrimediabilmente.
Il viaggio nei luoghi, che sono ogni volta occasioni di spostamento ulteriore dai luoghi della geografia ai luoghi dell’uomo nel suo vivere e ai luoghi del pensiero umano, ancora con precipitazioni nel tempo, nell’inarrestabile scorrimento processuale della Storia. Come nel grandioso capitolo 28, in cui dall’osservazione non priva di una sua comicità del capo tupi kawahib che fa finta di scrivere parte una riflessione sulla posizione della scrittura nella storia dell’umanità e sulla sua essenza di meccanismo di potere.
Fino al capitolo di chiusura, dove da un poverissimo villaggio del Bangladesh Lévi-Strauss comincia una riflessione  sulle tre religioni più importanti, buddhismo cristianesimo e Islam (e adesso che sono passati quasi sessant’anni anni sarebbe veramente il caso di considerare attentamente quello che egli dice dell’Islam), e dall’antropologia passa a una riflessione su ciò che egli chiama «entropologia», cioè sul destino generale e personale degli esseri umani.
E per tutto il libro Lévi-Strauss si sposta da una dimensione a un’altra, dagli universi delle geografie all’universo personale. La foresta reale si trasforma nel ricordo della campagna francese, i passi nel sottobosco tropicale sono scanditi dalle note di uno Studio di Chopin, rannicchiato nella sua amaca sotto la zanzariera l’esploratore si mette a scrivere una commedia che resterà incompiuta ma trasporta Augusto e il Senato romano nella giungla.
Così Tristi Tropici è soprattutto un viaggio di Claude Lévi-Strauss dentro sé stesso, un flusso di coscienza colossale che si apre in continuazione all’osservazione attenta di un esterno che viene poi riportato senza scarti in una consapevole riflessione personale, in uno stile unico, di cui forse l’elemento qualificante è proprio l’attenzione, che genera una scrittura lenta e densissima, a tratti quasi insostenibile per il continuo risplendere di bellezze indefinibili che dalla singola parola passano nella costruzione della frase e nell’incastro delle frasi una nell’altra.
Come nel brano indimenticabile sul tramonto in alto mare, sul significato che da sempre l’inizio e la fine del giorno hanno per gli uomini, quattro pagine di abbandono e di compenetrazione totale in una musica di parole e di colori, un gioiello incastonato in un libro che però è tutto insondabilmente prezioso, e che costituisce uno dei più grandi capolavori della narrativa del Novecento e di tutti i tempi. (bamborino, allemanda)
A pag. 117 troviamo un comico elenco di immondizie di cui fa parte alche lo stereo, palesemente refuso di sterco, anche perché la stereofonia fu commercializzata negli anni Sessanta e Tristi Tropici è uscito nel 1955, a pag. 194 un di al posto di ad, a pag. 202 manca un che, a pag. 212 Thor Heyerdahl diventa Heyredahl, a pag. 230 c’è un origine, a pag. 353 c’è differivano invece di differiva e a pag. 347 c’è un’assistenza che ha ben poco senso e mi puzza che doveva essere esistenza.
Trovare è nulla. Il difficile è incorporarsi quel che s’è trovato. (Paul Valéry, Monsieur Teste)

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