martedì 10 luglio 2012

Francis Scott Fitzgerald


Francis Scott Fitzgerald, Racconti dell’età del jazz. (Mondadori)
Non sono un ammiratore di Fitzgerald.
Ho letto Il grande Gatsby e mi sono detto, bah, e così dopo qualche anno l’ho letto ancora e mi sono detto ancora, bah. Anche peggio per Tenera è la notte, che malgrado fossi stato ben motivato dagli entusiasmi di una persona a me carissima e ottima lettrice non sono riuscito a superare le prime due pagine.
Poi ho scoperto l’arcano, quando ho letto La sposa meccanica di Marshall McLuhan e ci ho trovato, con un brano di Tenera è la notte, che secondo lui Fitzgerald scriveva capolavori di volgarità sentimentale.
In questi racconti, c’è il viso di Edith che egli aveva adorato durante gli studi universitari con una sorta di ammirazione distaccata e, ciononostante, affettuosa, poi c’è il cappello, piccolo e civettuolo, che la completava come la sommità di una costosa scatola colma di canditi, e poi il vaporoso abito rosa le roteava intorno e le sue agili braccia abbozzavano lievi e morbidi gesti nell’aria piena di fumo, e poi troviamo come una sorta di dolore diffuso in quell’uomo, una pietà innata, che le dava quasi un senso di benessere, quando lui le stava vicino, poi arriva la Kitty Carr dai capelli biondi e grandi occhi sgranati di bambina.
Ma la forma, dice György Lukács, è stile e contenuto, e così per quel che riguarda il contenuto troveremo la patetica commovente storia dei biscotti inchiodati al muro da un tale che poi finisce in coma, e anni dopo i biscotti li staccherà e li mangerà l’amico che era con lui la sera dell’inchiodamento, in una notte di disperazione e ovviamente di gran fame.
Insomma, viene il dubbio che stia scherzando, che prenda in giro quelli che lui stesso chiama autori popolari. Dubbio che tuttavia scompare se si pone attenzione a certi dettagli, come l’aggettivazione, per esempio dice colma e costosa, della scatola di canditi di cui sopra.
Direi che in linea di massima non siamo tanto lontani da Goethe, da Hermann Hesse, e purtroppo anche da Sándor Márai. E non siamo lontani nemmeno dalla nostra sottovalutata Liala.
Eppure, questi racconti si fanno leggere, e si fanno leggere più che bene, e io me li sono letti di gusto, anche se qua e là mi veniva da ridere.
Con il più famoso, Il caso singolare di Benjamin Button, che evita gli sdilinquimenti di quart’ordine e sul finale di colpo si trasforma da trovatina assurda e spiritosa in una storia tragica e può portare a una riflessione sulle condizioni generali dell’esistenza.
Oltre ad un’altra riflessione, sul denaro. Che dal segno che era, nel romanzo dell’Ottocento, della realtà sociale e individuale di una persona, come abbiamo già detto a proposito di Ritratto di signora di Henry James qui ha già completamente la posizione moderna di possibilità del fare e dell’essere, con in più la sensazione di limitazione esistenziale vissuta dai poveri rispetto ai ricchi. (bamborino)
A pag. 10, nell’introduzione si dice che in un’occasione Fitzgerald scrisse per ventun ore consecutive dalle otto del mattino alle sette di sera, e a pag. 329 c’è un cecamente.
E pianto una grana sul titolo originale del primo racconto, The Jelly-bean, che nella traduzione per Mondadori di Giorgio Monicelli diventa Il fannullone e nella traduzione per minimum fax di Giuseppe Culicchia è Patata lessa. Secondo me il fannullone non c’entra di sicuro con l’idea del jelly bean, ma anche la patata lessa, rende meglio l’idea ma visto che i jelly bean, una volta erano una rarità ma adesso in Italia si trovano anche dal tabaccaio e nei supermercati, si poteva lasciare così, che rende certamente meglio l’idea di una cosa che ha una crostina ma dentro è molle, e tutto sommato è piccola, dura poco e lascia insoddisfatti. Le patate lesse non sono una cosa insulsa ma un cibo gustoso che si accompagna quasi con tutto.
La gloria non dipende dallo sforzo, che è generalmente invisibile: dipende solo dalla messinscena. (Paul Valéry, Ispirazioni mediterranee)

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