giovedì 30 agosto 2012

C. S. Lewis, David Foster Wallace


Clive Staples Lewis, Le lettere di Berlicche. (Mondadori)

David Foster Wallace, Questa è l’acqua. (Einaudi)


Il libro di Lewis consiste in trentuno lettere che il diavolo Berlicche, esperto Sottosegretario di una sezione infernale, invia all’inesperto nipote Malacoda per ammaestrarlo sui mezzi per portare alla dannazione l’anima che gli è stata affidata, un giovane inglese al tempo della Seconda Guerra Mondiale.
Opera molto apprezzata da Benedetto XVI e, mi dicono, molto popolare nell’ambiente di C.L.
Non è stata tuttavia l’importanza di questo testo per il pensiero cristiano (Lewis era un anglicano profondamente credente) che mi ha portato a decidere di leggerlo, ma il fatto che Le lettere di Berlicche è il primo di una famosa lista dei dieci libri più importanti secondo David Foster Wallace, e per  maggiori informazioni sulla lista e sulla polemica di commenti che ha generato si può andare subito qui, dove si potrà scoprire che l’opera di Lewis apre un elenco di robaccia di quartissimo ordine per non dire quinto o sesto, con Stephen King al secondo posto.
Il fatto è che i commentatori della lista di Wallace parlano dei libri dal secondo posto in avanti ma si guardano bene dal dire alcunché della presenza in un elenco di porcherie stilato da Dfw di un’opera dell’Autore di Cronaca di un dolore , e questo mi lasciava più che perplesso.
Quindi giù a leggere, e via con una serie di sorprese, cioè da C. S. Lewis mi aspettavo cose notevoli e le cose notevoli le ho avute.
Berlicche comincia con lo spiegare al nipote che, anche grazie alla stampa settimanale, la gente ha perduto l’abitudine all’uso del pensiero. Lewis scrive nel 1942, e direi che da allora la situazione non è migliorata, anche grazie a tutte le meraviglie che si sono aggiunte alla stampa settimanale nel promuovere condizioni di sfacelo mentale sempre più diffuse e profonde.
A seguire, il piacere di trovare che nella lettera XIII il Werther di Goethe viene considerato per quello che ho sempre pensato che fosse, cioè un ridicolo coglione.
Troviamo poi nella Lettera IV che siamo animali, e qualunque cosa i nostri corpi facciano incide sulle nostre anime. Che è un pensiero tutt’altro che lontano dalla visione della fenomenologia e dalle scoperte più recenti della neurofisiologia, vedi Vittorio Gallese.
Proseguendo, troviamo formidabili osservazioni su quelle tensioni verso il futuro e verso il cambiamento e il miglioramento continui che sono tra le caratteristiche più profondamente e disgustosamente diaboliche del nostro mondo, che adesso si esprimono nella necessità che si impone con sempre maggior violenza di modificare e di migliorare se non di stravolgere continuamente le proprie competenze lavorative. Poi troveremo una magnifica discussione del problema del libero arbitrio (che rimanda a Humberto Maturana) e un bellissimo attacco alla contestualizzazione storica di tutto, contestualizzazione che porta al rifiuto di riconoscere nel pensiero di Autori del passato valori di pertinenza eterna.
Ma forse Lewis arriva al massimo della sua capacità di penetrazione dell’essere umano nel discorso a proposito del sesso. Perché uno che come lui sicuramente non è stato un accanito frequentatore di questo ramo dell’umano esperire, e la cosa è evidente anche da quello che scrive a questo proposito, mostra però come il genio quando c’è si faccia sempre sentire, e nella lettera XI osserva molto acutamente che vi sono alcuni per i quali nessuna passione è tanto seria come la lussuria e per i quali una storiella indecente cessa di produrre un senso di lascivia proprio in quanto diventa ridicola, mentre in altri il riso e la lussuria vengono eccitati nello stesso momento e dalle stesse cose, e il primo genere scherza sul sesso per le molte incongruenza che suscita, mentre i secondi coltivano le incongruenze in quanto offrono un pretesto per parlare del sesso. Che è una cosa che mi è capitato di constatare in innumerevoli circostanze.
Ci sono anche analisi acute delle più comuni problematiche di odio interne a quella cosa bellissima che è la famiglia attuale (secondo il Rapporto Eures-Ansa del 2006, in Italia gli omicidi volontari in famiglia sono stati 174 contro 146 per la criminalità organizzata e 91 per la criminalità comune) e prima della conclusione troveremo l’osservazione che più si diventa vecchi e più si diventa ineluttabilmente stronzi, mentre verso il gran finale vedremo come anche per Lewis (vedi sempre Maturana) la nostra valutazione della realtà si origini sostanzialmente nel linguaggio.
Ma c’è dell’altro.
Cioè c’è che Le lettere di Berlicche dice sostanzialmente le stesse cose che dice David Foster Wallace nel testo eponimo che chiude Questa è l’acqua (né l’editore né l’illustre prefatore fanno rilevare che la storia dei pesci compare anche in Infinite Jest), e mi sa che di questa concordanza non se n’è accorto nessuno.
Le corrispondenze sono impressionanti. Al punto che il testo di Dfw potrebbe essere considerato una semplificazione e un riassunto del libro di Lewis, di cui rende comunque gli elementi essenziali.
A cominciare dalla segnalazione del pericolo insito nel credersi migliori degli altri, per passare a tutto il discorso di Dfw sull’importanza di dotarsi di mezzi e di capacità proprie di pensiero evitando di accontentarsi di quella che egli chiama la modalità predefinita.
Che non è che Wallace la spieghi tanto bene, questa modalità predefinita, ma ci si può arrivare con un minimo di disponibilità interiore all’intuizione, e dopo un po’ che ci si pensa su, ci si può anche accorgere che in fondo il rifiuto della modalità predefinita consiste semplicemente nel considerare gli altri come persone dotate di un volto e di una storia e non come entità astratte definite dal proprio ruolo sociale. Con un possibile spostamento verso il pensiero di Emmanuel Lévinas e di Zygmunt Bauman.
Molto precise sono poi le analogie in due punti, primo quel che dice C. S. Lewis sulla preghiera nella lettera XXVII e la barzelletta dei due eschimesi di Dfw e secondo, il discorso, quasi identico nei due testi, sul rapporto tra attrazione erotica e spirito di sacrificio, lettera XXVI.
E anche se i due testi sono profondamente diversi nel tono, ironico in Lewis e quasi lirico in Wallace, la tensione etica, fortissima, è la stessa.

Quanto al resto di Questa è l’acqua, si tratta di cinque racconti stilisticamente diversi tra loro ma legati dal tema comune dell’amore.
Nel senso specifico dell’amore tra gli uomini e le donne.
Che Wallace tratta nei suoi aspetti sia di amore consolidato sia di amore nascente nel primo e nell’ultimo racconto, con i suoi consueti inarrivabili meravigliosi toni di lirismo misto a una comicità affettuosa con un risultato di grande potenza narrativa, mentre nel secondo brevissimo racconto mette in evidenza, in una maniera assolutamente geniale, la totale ineffabilità e irriducibilità di questo sentimento e per il quarto racconto, strutturalmente incasinato e quasi incomprensibile e sul cui significato si possono fare solo illazioni, direi con libertà per ciascuno di farsi le sue proprie personalissime, propongo la mia illazione personale, per cui l’amore in questo caso appare come un imprevisto, qualcosa che non c’entra. Nel terzo racconto (con una eventuale riflessione sul nome e cognome della ragazza amata dal narratore) l’amore è semplicemente la cosa bella di una vita immersa nella Cosa Brutta.
Brevi commoventi capolavori, e dar loro una posizione o un peso di valore rispetto al resto dell'opera di Dfw non ha senso ed è fuori dalle pertinenze della mia pochezza personale. Mi accontento delle emozioni, ringrazio, e mi dispiace che Wallace ci abbia lasciato. (bamborino)


A pag. 3 di Le lettere di Berlicche troviamo letture invece di lettere, a pag. 27 ripiegi invece di ripieghi, a pag. 27 approvati invece di approvate, a pag. 35 c’è facendole invece di facendo loro (errore non di stampa ma di grammatica), a pag. 47 presentata invece di presentato, a pag. 49 un uso dell’aggettivo triviale francamente fuori posto, che probabilmente viene da una traduzione dell’inglese trivial che come spesso accade non tiene presente che questa parola, che in inglese ha il significato di banale o irrilevante, in italiano ha una pesante connotazione di volgarità, poi c’è un ridicolo branchia invece di branca a pag. 105, e un e al posto di è a pag.126.

A pag. 8 di Questa è l’acqua c’è un errore molto particolare, cioè un riferimento al nodo mezzo Scappino a proposito di un’allacciatura di scarpe. Ora, io non ho visto il testo originale, ma credo che tutti sappiano che si tratta di un nodo per le cravatte. Non solo, è risaputo che nei paesi anglosassoni il nodo mezzo Scappino è chiamato nodo Manhattan o mezzo Windsor: si tratta di un nodo Windsor in cui si fa un giro invece di due, chi sa capisce e chi non sa peccato, e dà un risultato piacevolmente storto e falsamente trascurato rispetto al triangolo perfetto del nodo Windsor, ma quasi ugualmente pieno. Mi sembra abbastanza strano che uno si faccia un Manhattan ai lacci delle scarpe, ma qui la questione è che il nodo Windsor si chiama Scapino (non Scappino) solo in Italia, perché ai tempi del fascismo si era preferito dargli il nome di un allora famoso negozio di cravatte di Roma, e quindi il refuso è aver scritto Scappino invece di Scapino. O l’ignoranza, perché sono sempre stati in molti a usare il nome con le due p, tra cui mio padre. A pag. 9 abbiamo un principesca invece di principesco, a pag. 108 pasqua minuscolo, a pag. 116 un terrorizzante che secondo me in italiano sta sempre meglio il vecchio terrificante, a pag. 138 manca un pezzo di una frase.
E non è possibile evitare un commento sul fatto che si sia tralasciato, da parte di chi ha curato il testo, di fare rilevare la particolarità del titolo del terzo racconto, Il pianeta Trillafon e la Cosa Brutta. Cioè che il racconto parla di antidepressivi, e Trilafon (con una l sola) è il nome commerciale della perfenazina, uno dei più famosi antipsicotici di prima generazione,  tra l’altro giustamente glorificato da uno dei più grandi studi sui farmaci antipsicotici, il CATIE.




I libri sono le note, la conversazione è il canto. (Anton Čechov, Il reparto n° 6)

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