mercoledì 8 agosto 2012

Romain Gary


Romain Gary, L’angoscia del re Salomone. (Giuntina)
Come La vita davanti a sé, questo è uno dei romanzi che Romain Gary aveva pubblicato con lo pseudonimo di Émile Ajar, e su questa faccenda dello pseudonimo qui c’è una bellissima postfazione che racconta tutta la storia, bellissima storia, meraviglioso pezzo della storia di un uomo che almeno da un certo punto di vista, questa è una cosa che è sempre da un certo punto di vista, da un certo punto di vista e in un certo senso aveva avuto una vita meravigliosa. Eroe di guerra e della Resistenza francese e carriera diplomatica cioè far niente e prendere un ottimo stipendio, grande scrittore con successo di critica e di vendite e matrimonio con una delle più bombastiche gnocche della storia del cinema che aveva la metà dei suoi anni, aveva avuto una vita che tanti darebbero un braccio e in questo contesto, a casa sua che oltretutto abitava in Place Vendôme, a un certo punto s’è sparato.
Bellissima postfazione che però secondo me la mette troppo sull’ebraismo in senso religioso, va bene che l’editore è Giuntina e va bene che Romain Gary era ebreo ma i contenuti del libro, anche quando si parla di rapporto dell’uomo con Dio, secondo me sono assolutamente universali, e allora se da una parte non ho nessuna difficoltà a riconoscere che da almeno centocinquant’anni gli ebrei sono l’anima del pensiero occidentale, dall’altra non sono così sicuro che questa loro posizione centrale salti fuori dall’andare in giro con i riccioli a cavatappi e dal fare rapare a zero le donne quando si sposano per poi fargli mettere la parrucca, per non dire dei frigoriferi separati per il formaggio e per la carne, e credo che almeno Woody Allen sarebbe d’accordo con me.
Come d’altra parte non credo che le peraltro molto meno frequenti esibizioni di profondità di pensiero di noi gentili vengano dall’andare a Messa o dall’ascolto delle esegesi bibliche televisive della domenica mattina, di cui ricordo un’occasione in cui fummo informati del fatto che il significato simbolico profondo dell’acqua ha a che fare con i lavaggi.
Tenendo tuttavia presente che questa punta di lancia della cultura occidentale che indiscutibilmente sono gli ebrei, la loro potenza di pensiero però l’hanno espressa nelle nostre lingue, perché se si fossero dovuti esprimere in ebraico, lingua inadatta al pensiero analitico in quanto non dotata di un alfabeto con vocali indipendenti come il nostro (vedi Walter Ong, Oralità e scrittura), non lo so se tutta questa potenza riuscivano a tirarla fuori.  
Comunque Romain Gary s’è sparato un anno dopo questo romanzo.
Che è sostanzialmente un  romanzo filosofico e che credo si possa considerare un testamento spirituale.
Trama esilissima e che non vale la pena di raccontare nemmeno per sommi capi, anche perché non è possibile raccontarla in quanto nasce probabilmente dalla coagulazione spontanea dei temi di riflessione esistenziale del romanzo.
Si potrebbe dire che è una storia d’amore, o due storie d’amore di un personaggio, o due storie d’amore incrociate di due personaggi, o due storie d’amore in qualche modo sovrapposte. O potrebbe essere considerato il Bildungsroman del giovane protagonista, o il Bildungsroman degli altri due protagonisti, che sono vecchi. O una storia d’amore corale di tutti i personaggi, l’amore per la vita.
Insomma la trama quasi non c’è, come quasi non c’era nell’altro capolavoro di Émile Ajar, La vita davanti a sé, ma anche qui la lettura è avvincente per non dire travolgente dall’inizio alla fine. E spassosa. Si ride bene e si ride spesso, con personaggi di contorno strepitosi, come il giovane filosofo da strapazzo, Chuck, e il portinaio Tapu, che a molti farà venire in mente subito il tipico tipo del leghista.
Si ride su tutto, ma alla fine non c’è niente da ridere. Perché in uno stile molto vicino ai meravigliosi spericolati equilibrismi linguistici di La vita davanti a sé, qui il tema della morte pervade quasi ogni riga del racconto.
La morte e l'angoscia e con l’angoscia c’è una rabbia di fondo per tutto quello che non va, per il dolore che è parte integrante del vivere di tutti i giorni. Per la sensazione e il pensiero dell'assurdità e della mancanza di senso. Senza che Gary stabilisca una gerarchia di valore o di origine tra queste cose, sempre completamente mescolate una nell'altra.
Ma non solo l’angoscia e la rabbia e il resto. In questo libro, come forse in nessun libro tra quelli che conosco, c’è tanto di quello che si può dire di tutto il bello della vita, di tutta la vita. Anche se non c’è solo l’amore e la giovinezza, ma anche la vecchiaia, la vecchiaia e la morte.
E si parla soprattutto dell’amore. Dell’amore in senso stretto, cioè l’amore di una persona specifica, e in senso lato, cioè il sempre molto difficile amore in generale per i nostri simili.
Anche se l’amore non ci salva dall’angoscia, perché per Gary/Ajar l’angoscia è il substrato continuo ed essenziale di tutta l’esistenza.
Ma ci possiamo ricordare che spesso o forse sempre, come dice il protagonista Jeannot, gli altri sono tutto quello che abbiamo, in mancanza di meglio.
Che secondo me è forse il punto più importante della riflessione esistenziale di questo libro, così importante che Gary la fa passare solo di striscio e in poche righe, come a schermirsi per il peso di questa osservazione.
Ce lo dimentichiamo facilmente, o forse non ci pensiamo mai che le persone che amiamo, le amiamo in mancanza di meglio. E che anche noi, per loro, siamo lì in mancanza di meglio. Che non dobbiamo mai pensare, in questo meraviglioso continuo ripetersi di catastrofi esistenziali che è sempre l’amore, di essere per gli altri il meglio. Siamo quello che c’è, qui e adesso e per questa persona, in mancanza di meglio. Perché l’angoscia della vita, come dice ancora Gary, è la mancanza di tutto, quella nostalgia senza nome di cui parla anche David Foster Wallace. Ma dice Gary, bisogna limitarsi, perché non si può mancare di tutto contemporaneamente. (bamborino)

Solo un e invece di è a pag. 38 e una personale perplessità per la traduzione di Connerie con Fessaggine a proposito del portinaio leghista. Con, tradotto letteralmente, in italiano è coglione, e Coglioneria secondo me ci stava meglio. Segnalo anche che il film dei fratelli Marx al quale si fa riferimento a pag. 49, vero che il titolo originale se non mi sbaglio è Duck Soup ma, sempre se non mi sbaglio, in Italia capita più facilmente di vederlo con il titolo La guerra lampo dei fratelli Marx.
Si nasce in clinica e si muore in ospedale. (Marc Augé, Nonluoghi)

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