lunedì 3 dicembre 2012

Nathaniel Hawthorne


Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta. (Einaudi)

Cominciamo dall’inizio. Cioè da prima dell’inizio, perché La lettera scarlatta è preceduto da uno scritto intitolato La dogana che con il romanzo non ha nulla a che fare, se non presentare l’Autore e la vicenda del fortuito ritrovamento di un vecchio manoscritto, con ogni probabilità immaginario come la storia del romanzo, che l’ha portato a conoscenza dei fatti che tra poco ci troveremo a leggere.
Uno scritto, La dogana si può definire solo così. Non è una prefazione, non è un racconto, non è un saggio.
Lo scritto in questione è composto di satira politica, bozzetti ironici di svariati personaggi presentati nelle proprie caratteristiche individuali e di gruppo, temi di critica sociale e di critica storica, narrativa autobiografica, riflessioni sulle proprie condizioni interiori in quanto individuo e in quanto scrittore, riflessioni sul senso personale e sociale dell’esistenza, meravigliose e incisive descrizioni di ambienti esterni e domestici. E tutto è miscelato in una continua trasposizione di piani spaziali e temporali, in un amalgama che se fosse roba da mangiare, si potrebbe dire che il piatto ha un suo gusto nettissimo e forte, ma che in questo gusto si può apprezzare fino in fondo l’aroma particolare di ogni ingrediente, sia nella sua singolarità sia nel suo rapporto con gli altri elementi della composizione. Insomma una delle più grandi prove di maestria narrativa che mi sia mai capitata sotto gli occhi. In quarantasette pagine, che costituiscono più un sesto del libro intitolato La lettera scarlatta.
Poi Hawthorne ci porta nella storia, con un assembramento davanti alla prigione di Boston, portone di legno chiodato, donne in abiti neri che aspettano l’uscita della protagonista.
La lettera scarlatta è un romanzo di potenze, potenze di fatti e di emozioni, potenze di ambienti e di personaggi, potenze degli scavi con cui Hawthorne, quest’uomo di una timidezza quasi patologica e che ha fatto una vita che non è stata niente di particolarmente emozionante da nessun punto di vista, riesce a calarsi nelle profondità della mente e del cuore dei personaggi, a trasferire nel lettore le emozioni e i pensieri persino di una donna e di una bambina che attraversano esperienze assolutamente particolari. Qualcuno potrebbe considerare questi inspiegabili invasamenti degli artisti come prove dell’esistenza di Dio, qualunque cosa ciò voglia dire, ma lasciamo perdere. Anche se mi viene in mente Mozart, che a quattordici anni ha scritto il concerto per pianoforte e orchestra n°1 KV 37, che esplode di potenze emotive che richiederebbero le esperienze di una vita.
Ma secondo me La lettera scarlatta è soprattutto il romanzo dell’ambiguità come caratteristica fondamentale dell’essere umano. O della dialettica hegeliana nella costituzione delle persone.
Semplicissimo e lineare nella struttura, il romanzo di Hawthorne non lo è affatto nei personaggi principali, che sono tutti espressioni di totale ambiguità, immersi in un ambiente che dà definizioni precise e grossolane del Bene e del Male. Hester Prynne, la peccatrice, è una specie di santa che se ne vorrebbe andare ma alla fine ritorna e il suo seduttore Dimmesdale è un falso santo e mai come in lui s’è visto il falso come momento del vero come direbbe Hegel o il vero come momento del falso, come direbbe Guy Débord, e Roger Chillingworth, il marito tradito, in realtà non è un marito tradito ma un demonio nei cui confronti la categoria del tradimento non ha senso perché ha sempre posseduto totalmente la vita della moglie, anche quando l’ha abbandonata, e la ritrova per dominarla ancora ma nella più assoluta segretezza, e per dominare non solo lei ma il suo seduttore e anche la figlia nata dal tradimento, la cui vita dominerà poi anche da morto.
In mezzo a tutti, l’indimenticabile Pearl, la bambina, che dall’inizio alla fine del romanzo oscilla senza sosta tra l’angelico e il diabolico, che incanta e fa paura, sempre vestita sontuosamente e vistosamente mentre la madre indossa solo abiti dimessi e nasconde persino i capelli: ulteriore ambiguità, della peccatrice che si nasconde ma ostenta il peccato.
Un’altra lettura possibile è quella della lotta tra il Bene e il Male, con trionfo finale del Bene, ma mi sembra meno fondata: Hester Prynne non si libera mai dal peccato, il seduttore falso santo ci lascia la pelle avvelenato nel corpo e nello spirito dal marito diabolico, e il marito diabolico muore di consunzione quando non può più vivere nel suo odio. Cioè sì, il Bene trionfa, ma il Male non se ne va affatto. Che può essere un’altra ambiguità, se vogliamo.
Rimane da fare una riflessione su questo inizio del romanzo americano, che si pone immediatamente e completamente nel campo della narrativa esistenziale, anzi si restringe in uno sguardo esclusivamente di interiorità e proprio sul tema dell’ambiguità, che cent’anni dopo sarà ritenuto così importante da Zygmunt Bauman. Questo, mentre in Francia e in Gran Bretagna negli stessi anni il romanzo rimane aperto a temi più decisamente sociologici, e anche la definizione dei personaggi appare fondata essenzialmente in caratteristiche economiche e sociali. Un possibile registro interpretativo può essere quello offerto da Karl Marx in Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, quando dice che negli Stati Uniti le classi sociali esistevano già, ma non si erano ancora fissate, e in un flusso continuo modificavano continuamente le loro parti costitutive e se le cedevano, e ancora questo discorso di Marx su un movimento continuo fa venire in mente Bauman e la sua visione di un mondo liquido che si muove appunto tra un’ambiguità e un’altra.
Si può aggiungere una ulteriore interpretazione del romanzo a partire dalla posizione di Chillingworth rispetto alle categorie del desiderio secondo René Girard in La violenza e il Sacro e in Menzogna romantica e verità romanzesca, e in questo senso Chillingworth potrebbe essere considerato una specie di colosso del desiderio triangolare, forse peggio dei cornuti di Dostoevskij mirabilmente studiati da René Girard, in quanto è calato completamente nella rivalità triangolare, e desidera diventare come Dimmesdale fino al punto di vivere con lui, e, una volta morto il rivale, non può far altro che morire anche lui, completando infine la sostituzione con una presenza definitiva nella vita di Pearl.
E chiudo con una domanda, ma che cosa aveva la Nuova Inghilterra da generare scrittori così. Perché La lettera scarlatta, con tutto il diabolico di cui è intriso il romanzo, non può non far venire in mente che se Nathaniel Hawthorne è nato a Salem, Edgar Allan Poe è nato a Boston, e Howard Phillips Lovecraft è nato a Providence. (bamborino)

In coda, si dà la soluzione del concorso senza premi lanciato con il post su I fratelli Karamazov. L’altro personaggio diabolico con le spalle slivellate è Chillingworth.




Io detesto la gente sicura di sé. (Cesare Pavese, Fine d’agosto)

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