mercoledì 29 agosto 2012

Georges Simenon


Georges Simenon, Tre camere a Manhattan. (Adelphi)

Simenon è uno scrittore difficile.
Nel senso che quel che dice Noam Chomsky in Linguaggio e problemi della conoscenza, che è decisamente possibile e anzi assolutamente probabile che si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica, trova secondo me una delle sue massime manifestazioni nell’opera di Georges Simenon.
La sua profondità di indagine è tale che a volte una prima lettura non basta, e la comprensione totale del significato dell’opera viene solo al secondo colpo, e lasciandoci in mezzo una pausa. Che è quello che mi era già capitato con  L'uomo che guardava passare i treni.
E se Charles de Gaulle aveva una certa idea della Francia, bisogna riconoscere che Georges Simenon ha una sua certa idea dell’amore. Che in questo romanzo appare, come già in Lettera al mio giudice come un’esperienza di spaccatura nel corso, o nel percorso, dell’esistenza.
Percorso, perché in Tre camere a Manhattan l’amore è sia l’interruzione di un disastro esistenziale, sia il momento costitutivo di un nuovo modo di vivere. Che passa da una casualità inconsapevole all’intenzionalità cosciente.
Qui c’è la storia di un uomo e di una donna che si incontrano in una notte di New York, in una condizione di sradicamento e di solitudine. Sembra che per Simenon la solitudine sia la moneta corrente della vita di tutti.
Il centro della narrazione è lui, sradicato come lei perché come lei non è americano, sradicato come lei perché se lei non ha una casa, lui la casa ce l’ha per modo di dire. Anche lui come lei non ha più la sua famiglia.
Il riconoscimento dell’Altro è graduale, indiretto nel suo momento iniziale. La prima volta lui la guarda nello specchio del bar.
Poi i due cominciano a camminare, camminano tutta la notte e si fermano in un albergo. Scopano, dormono, si svegliano la sera dopo, escono di nuovo a camminare. Potrebbe essere una metafora del viaggio della vita, che è ricominciato per tutti e due in quella notte.
Il resto è una storia in cui la coscienza di Sé nasce dalla conoscenza e dalla consapevolezza dell’Altro, per gradi di approfondimento interiore e di successivi confronti con le diverse possibilità del rapporto con gli altri. Fino al distacco e al ricongiungimento, che segna la presa di coscienza definitiva e l’inizio del rapporto intenzionale con il mondo.
Se nella letteratura moderna l’amore appare sempre come momento problematico, qui il discorso è sul senso e sulla localizzazione esistenziale dell’amore. Che si sposta nel tempo, passando nei luoghi interiori ed esterni dei protagonisti, attraversa la loro vita del presente e si sposta verso un passato con cui riprende contatto. Sia per lui che per lei c’è un momento di interruzione della storia, quando lui passa una sera con le sue vecchie conoscenze e lei contemporaneamente viene chiamata ad assistere la figlia lontana che si è ammalata.
Sembra che il romanzo sia in qualche modo inondato di metafore e di simboli.
Innanzitutto la scrittura stessa, ben lontana dalle eleganze ritmiche di Lettera al mio giudice, mentre in Tre camere a Manhattan lo stile del romanzo, nella sua ispida costituzione come a scatti e interruzioni, sembra voler ripetere la difficoltà e la fatica della rinascita esistenziale del protagonista.
Poi c’è il problema del sarto. Un sarto ebreo che i due vedono dalla finestra, mentre lavora in un appartamento di fronte al loro. Che contribuisce con la sua presenza a scandire in qualche modo l’andamento della storia, dapprima lavora e basta, poi con l’arrivo per i due amanti di una domesticità iniziale viene visto mentre fa colazione, poi verso il finale accende la luce mentre lei sorride. Così credo che sia legittimo pensare, cosa c’entra il sarto, e cercare di capire, perché il sarto in realtà non c’entra, e d’altra parte non può esserci così pesantemente e per caso.
Come ho già scritto nel post su I detective selvaggi di Roberto Bolaño, se come dice Humberto Maturana e come dice anche  Walter Ong noi esistiamo solo nel linguaggio e il nostro pensiero non sarebbe possibile e in realtà non è possibile senza linguaggio, allora forse potremmo pensare, forse con  Pierre Teilhard de Chardin, a tutte le parole dell’umanità come a tutto il pensiero dell’umanità, e a tutta la letteratura come a un’unica opera di tutto il pensiero di tutta l’umanità, e forse potremmo pensare anche che questo pensiero si evolve e cambia e cresce incessantemente, mai uguale a sé stesso, con l’infinità discreta e il resto che dice Noam Chomsky, come si evolve e cambia il pensiero degli individui, ai quali capita che un’idea ne generi un’altra senza che di questo collegamento siamo affatto consapevoli. E infatti Walter Ong parla dell’importanza dell’intertestualità, del continuo transito di forme e di contenuti tra le opere di narrativa.
Così ci può venire il sospetto che in Tre camere a Manhattan il sarto sia collegato all’illuminazione finale perché in qualche modo, forse anche del tutto inconsapevolmente, Simenon l’ha messo lì per significare la presenza silenziosa di Dio, e poco dopo questo pensiero può capitare di trovare, nel Sartor Resartus di Thomas Carlyle, capitolo XI, Libro Terzo, che “Il mondo riconoscerà con sbalordimento che il Sarto è il suo Ierofante e Gerarca, o persino il suo Dio”.
Il romanzo si chiude su una luce che si accende, e si era aperto su una luce che il protagonista aveva lasciato accesa per dimenticanza. La storia si distende così tra queste due luci, la luce iniziale del disordine e la luce finale che significa l’inizio di una giornata di lavoro, di ordine.
Come a dire che solo dall’amore può venire l’ultima possibilità di trovare ordine in un’esperienza esistenziale che ai nostri tempi si perde sempre più nella mancanza di senso.
Dall’amore come riscoperta e riconoscimento di noi stessi nell’Altro, che in questo romanzo di Georges Simenon non è una parola vuota e aperta ad attribuzioni di significato incerte o ambigue, ma esplode da subito nella carnalità tangibile di un rapporto che comincia dal sesso. Da quel minimo esistenziale che nessuno ci potrà mai togliere. (bamborino)

C’è una stranezza, che nel romanzo si parla dell’aeroporto La Guardia. Che è stato intitolato a Fiorello La Guardia dopo la sua morte nel 1947.  Ma Tre camere a Manhattan sarebbe stato scritto nel 1946.




L’amore è forse la più bella forma di dialogo che l’uomo ha inventato per rispondere a sé stesso. (Romain Gary, Mio caro pitone)

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