domenica 21 luglio 2013

Jane Austen


Jane Austen, Emma. (Mondadori)

Secondo me ci sono due modi di leggere questo romanzo.
Certamente lo si può leggere ex abrupto, o asabrutta (che si scrive correttamente e portianamente così, anche se si pronuncia asabrüta) come si dice a Milano, cioè così di colpo partendo da qui per conoscere Jane Austen. E dico partendo perché Jane Austen è di quei Grandi grandissimi che se ne leggi uno poi non ti puoi fermare e ti leggi tutto il resto.
Quindi si può partire da Emma e si legge un capolavoro e la soddisfazione è comunque piena e bella rotonda. Emma è un romanzo centrale nella produzione di Jane Austen ed è un romanzo centrale nelle storia della letteratura in generale, e la lettura di un’opera così colossale va bene comunque.
Ma se si fa così secondo me non si può capire fino in fondo perché Emma è un capolavoro.
Per capire fino in fondo Emma Woodhouse bisogna aver fatto il percorso in mezzo agli stronzi che si può fare solo leggendo i romanzi di Jane Austen che precedono questo, e addirittura sarebbe meglio aver letto anche Flaubert o Céline.
Via, a muoverci in mezzo agli stronzi ci siamo ben abituati, gli stronzi metaforici delle nostre obbligatorie frequentazioni quotidiane e gli stronzi veri e propri, gli stronzi di cane in mezzo ai quali ci tocca camminare sui marciapiedi delle città.
Ma anche se siamo obbligati a nuotare in un mare di escrementi pur non essendo adulatori né ruffiani, non è detto che ci siamo mai fermati tra uno stronzo e l’altro a fare una riflessione su quali siano le loro caratteristiche distintive. 
E qui non posso non tornare a Noam Chomsky che in Linguaggio e problemi della conoscenza dice che che si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica, perché la letteratura parla degli stronzi, ma la psicologia semplicemente li ignora (come abbiamo visto a proposito di Quando l'amore non basta di Aaron Beck), e non si domanda cosa distingua lo/a stronzo/a da chi stronzo/a non è, né cerca di trovare mezzi per distinguere uno/a stronzo/a da un essere umano accettabile, nella convinzione che le uniche investigazioni che meritano di essere fatte sull’animo umano si debbano imperniare sugli accadimenti che si verificano nell’epoca in cui si sta in braccio alla mamma, vedi quanto detto a proposito di La Psicantria. Come se durante l’adolescenza e anche in seguito da un rapporto interpersonale a un altro e da una lettura a un’altra non ci si formasse come persone. Come ci fa vedere un altro scrittore, che non è solo uno scrittore, Jean-Paul Sartre in Infanzia di un capo.
Ma Jane Austen come tutti i grandi scrittori delle mamme se ne frega. Emma Woodhouse non ce l’ha nemmeno, la mamma.
Quindi lasciamo stare la psicologia e torniamo a Jane Austen.
Che in Emma sfodera tutta la sua ironia fin dalle prime righe e poi va avanti con una incredibile perfezione di ritmo e di incastro delle scene una nell’altra, con la squisitezza stilistica di passare i discorsi indiretti tra virgolette e con una efficacia strabiliante nel rendere il modo di esprimersi di ogni personaggio diverso, che arriva al sublime nel modo di parlare di Miss Bates, che si scambia con i gesti e vibra di continui alti e bassi, e riesce ad annegare il lettore nel gorgo di prolissità di questa sciagurata, e qui ci sta anche un riconoscimento all’evidente magistralità della traduzione.
Ma le altezze narrative di Jane Austen non sono niente in confronto alle sue profondità psicologiche, ovviamente non scientifiche.
Emma è il romanzo del semolino.
Il semolino come elemento centrale dell’esistenza di Mr. Woodhouse, il padre di Emma.
E fa ridere, questo vecchio che non può evitare di raccomandare a tutti l’opportunità di prendere ogni sera prima di andare a dormire un semolino, e di spiegare come il semolino debba essere preparato in un certo modo. Questo vecchio che ha paura ad uscire di casa e che pensa che tutti farebbero bene ad avere le sue continue paure di ammalarsi e di prendere freddo, o di fare un pasto troppo pesante, e che dice di non fidarsi di una persona semplicemente perché non l’ha mai vista.
Ma poi ci possiamo fermare a pensare che in un certo senso l’epistemologia del semolino è più diffusa di quel che sembra, e che sono in tanti a vivere nei loro semolini, che conferiscono una possibilità di apertura agli altri e a esperienze diverse da quelle che sono state codificate in casa di mamma e papà prima di compiere sei anni, che in molti casi non è più vasta di quella di Mr. Woodhouse. E su questo tipo di codifica dell’esperienza ci si può richiamare a Menzogna romantica e verità romanzesca di René Girard
Che poi se vogliamo potrebbe essere che i semolini personali sono il generatore fondamentale dello stronzismo, quando l’adolescenza non viene utilizzata per aprirsi ai punti di vista degli altri, cioè alla conoscenza.
E volendo, dallo stronzismo in generale possiamo fare ancora un piccolo balzo indietro al campo più ridotto degli stronzi di cane, e forse potremo considerare, come abbiamo già detto a proposito di Cloudspotting di Gavin Pretor-Pinney, che chiunque forse in fondo potrebbe essere disposto a riconoscere che dedicare una parte cospicua del proprio tempo alla disseminazione di escrementi di cane sui marciapiedi, o alla assai meno diffusa pratica della raccolta degli stessi in sacchetti, chiunque sarebbe disposto a riconoscere che si tratta di un’attività ben miserabile e forse anche piuttosto degradante, ma se il cane è il proprio cane personale allora va bene. Cioè ancora, quel che conta è sempre il proprio autoreferenziale personale semolino.
Così mentre Mr. Woodhouse e il suo semolino scandiscono il romanzo come il coro di una tragedia greca, una pagina dopo l’altra Emma diventa anche il romanzo dell’incomunicabilità, della chiusura di ciascuno in universi separati e impermeabili. Ognuno con il suo semolino, come Emma e Knightley nel meraviglioso duetto di reciproca incomprensione del capitolo XVIII. E lo stesso Knightley, che sembra più attento degli altri ai semolini di ciascuno e soprattutto ai semolini di Emma e appare sempre piuttosto comprensivo delle altrui fragilità, in fondo quando lo toccano in quel che gli importa di più è ottenebrato anche lui dal suo semolino, come succede per quel che riguarda Frank Churchill. Ottenebramento che nel caso di Knightley è particolarmente grave e vistoso, in quanto egli mostra in tutto il romanzo la capacità di valutare le persone per le loro caratteristiche, indipendentemente dal rapporto in cui si trovano con lui.
A questo punto Emma può essere considerato anche un romanzo sulle coppie, o su quel che porta donne e uomini a mettersi insieme, e qui troviamo l’evidenza di due modalità. Da una parte abbiamo le motivazioni socioeconomiche nelle coppie Hawkins-Elton o Taylor-Weston o Smith-Martin, dall’altra parte abbiamo l’amore senza spinte sociali come in Fairfax-Churchill ma motivato in un interpersonale e in un certo senso ragionevole e reciproco vantaggio e chiedo scusa per questo pezzetto di spoiler che non si poteva evitare, ma fra tutti campeggia Knightley, che ama in entrambe le modalità, esattamente nell’ambiente socioeconomico di sua spettanza ma ama di un amore che trascende ogni motivazione ragionevole, e forse in questo batte anche Darcy di Orgoglio e pregiudizio, perché Darcy è ben convinto che Elizabeth Bennet sia un fiore di persona, mentre Knightley sa benissimo che cosa sia Emma.
Ma Emma, come si diceva all’inizio, è un romanzo sugli stronzi.
Perché se in altre opere di Jane Austen gli stronzi sono sullo sfondo anche se con una potenza formidabile, vedi la Norris di Mansfield Park e soprattutto quel titano che è Collins in Orgoglio e pregiudizio, qui è proprio la protagonista, Emma, ad essere una stronza di dimensioni piramidali. Presuntuosa come tutti gli stronzi, e anche lei ottenebrata in un proprio semolino totale, che la porta a vivere in un delirio di superiorità per cui si crede padrona e direttrice dei destini di tutti. E non capisce niente di nessuno.
Così, nell’analisi del non capir niente degli altri della protagonista, Emma diventa un romanzo sulla coscienza, forse il più grande romanzo che sia mai stato scritto sulla coscienza.
Sulla coscienza che essendo un fatto intenzionale (vedi definizione del Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano nel post su Il lato oscuro della Rete di Nicholas Carr) ed essendo quindi coscienza di qualcosa, non può iniziare se non attraverso la teoria della mente (vedi La mente etica di Michael Gazzaniga), cioè innanzitutto dalla consapevolezza dell’Altro.
A questo punto dobbiamo prendere in esame il fatto che dall’intenzionalità, cioè dall’avere una coscienza che è coscienza di qualcosa e non è solo quella che Antonio Damasio chiama coscienza nucleare, cioè il livello più semplice, o più basso, di consapevolezza di sé come entità fisica ed emozionale, dall’intenzionalità comincia secondo gli studi più recenti (vedi Dalla mano alla bocca di Michael Corballis e Lingua madre di Dean Falk) la possibilità biologica del linguaggio, che non può esistere se non per denominare cioè concettualizzare qualcosa di diverso da sé.
Ma il linguaggio a un certo punto diventa scrittura e passeremo quindi a Walter Ong che in Oralità e scrittura a pag. 150 rifacendosi a Eric Havelock sottolinea la ulteriore separazione del soggetto dall’oggetto della conoscenza che la scrittura comporta, con un’introspezione sempre più articolata che apre la psiche non solo al mondo esterno e oggettivo e separato da essa, ma anche all’Io interiore. Processo di separazione che esplode con la tipografia, come ci mostra Marshall McLuhan in La galassia Gutenberg.
Ed è per questo motivo che nell’epoca della piena maturità tipografica che precede di poco l’avvento dell’epoca elettromagnetica dell’oralità secondaria il romanzo dell’Ottocento si apre a possibilità di introspezione inimmaginabili per la mente delle epoche precedenti.
Come infatti qui possiamo vedere che Emma, che durante la gita a Box Hill si dimostra completamente priva di teoria della mente, così come non ha i mezzi cognitivi per capire gli altri, non ha i mezzi per prendere in considerazione nemmeno sé stessa. Per tutto il romanzo Emma non dà il minimo segno di una minima capacità di prendere in considerazione la propria esistenza e il proprio pensiero, e pensa esercitando l’intenzionalità solo nei confronti degli altri. Non pensa e non vive, pensa e vive quelle che crede che siano le vite degli altri, fino al capitolo XLVII, quando improvvisamente precipita nell’universo della consapevolezza del Sé, quando riesce a spostare su sé stessa il pensiero di Knightley. E Jane Austen ci fa vedere proprio questo miracolo, della persona che si sposta da sé stessa per avvicinarsi al pensiero dell’Altro, e dal pensiero dell’Altro ritorna a sé stessa, a un Sé adesso compreso con quella capacità di guardarlo dall’esterno che i filosofi chiamano intenzionalità.
Altro, che non casualmente è Knightley, che è l’unico personaggio che fin dalle prime pagine del romanzo parla ad Emma di lei stessa e del suo rapporto con il mondo.
Mi rendo conto che ho scritto guardarlo e involontariamente ho utilizzato un’espressione di quella modalità visiva di cui parla Marshall McLuhan. Ma se la presenza di diversi individui con diversi punti di vista non comunicanti, cioè diversi semolini autoreferenziali, indica una visione della realtà essenzialmente tipografica, la graduale nascita della coscienza di sé in Emma è descritta da Jane Austen con modalità che saranno caratteristiche del punto in cui la mentalità dell’epoca tipografica si troverà a confrontarsi con la simultaneità del Villaggio Globale e dell’oralità secondaria, tanto che prende le mosse da un procedimento profondamente e caratteristicamente legato alle necessità nuove della simultaneità che è, sempre nel capitolo XLVII, quello della sospensione del giudizio (vedi Lady Anna e Le torri di Barchester di Anthony Trollope) per la quale, come dice McLuhan, siamo in grado di trascendere i limiti dei nostri stessi presupposti operando una critica di essi.
Del resto se vogliamo, la necessità che i tempi nuovi stanno portando di una continua sospensione del giudizio, legata a una sempre più evanescente condizione delle posizioni sociali prestabilite, è pesantemente evidenziata dalla storia di Jane Fairfax e di Frank Churchill.
A questo punto, tornando con un altro balzo indietro al rapporto tra Emma e Knightley, si potrebbe trovare un ulteriore spunto di riflessione sulle psicologie e più precisamente su una delle scostumanze diffuse nell’epoca dell’oralità secondaria, che sono le psicoterapie. Perché il procedimento della sospensione del giudizio richiede comunque un punto fermo di partenza, che non può essere attestato se non nella visione intenzionale (vedi supra) e quindi separata che uno si trova ad avere di sé come oggetto della conoscenza, e se la coscienza di Sé è parzialmente sviluppata ma in qualche modo deficitaria, per costruirci una narrazione di noi stessi abbiamo bisogno del discorso su noi stessi che ci vien fatto da un altro, che è più o meno quello che fanno sempre e comunque gli psicoterapeuti. E questo fatto spiega come mai le psicoterapie funzionano indipendentemente dall’impostazione teorica e dalla metodologia che le sottende, perché esercitano comunque la funzione di rimandare al paziente, privo di una visione intenzionale di Sé, la visione intenzionale del terapeuta, e di nuovo ho usato la metafora visiva. E per tutto questo lavoro, quel che conta non è tanto la teoria generale o il metodo dello/a psicoterapeuta, quanto lo sviluppo di un minimo di legame empatico tra paziente e terapeuta, per cui il paziente alla fine se ne andrà avendo acquistato un tot di capacità di pensare a sé stesso, magari malamente ma con meno angoscia.
Alla fine, è l’amore a far cambiare Emma.
Ed è un amore che fa il primo passo verso la piena consapevolezza, grandissima Austen, non dal riconoscimento del proprio sentimento da parte di Emma, ma dal pensiero di quello che deve essere e non può non essere il pensiero che Knightley ha di lei.
O meglio, come l’esistenza tutta e tutto il pensiero dell’uomo, che come abbiamo visto con Humberto Maturana  è essenzialmente linguaggio e quindi intenzionalità e non esiste se non nel rapporto con gli altri, Emma si trasforma e comincia a capire qualcosa quando attraverso l’amore si rende conto dell’esistenza degli altri.
Così la zitella di Chadwick non solo chiude il Settecento con  Northanger Abbey e apre l’Ottocento con Ragione e sentimento, ma con questo romanzo pone una significativa prima pietra nella costruzione dell’edificio del Novecento.
Come dice Harold Bloom in Il genio, Jane Austen ci porta verso la profonda libertà dell’individuazione.
Il problema della coscienza forse comincia con Emma. (bamborino)

In una nota alla Dedica a pag. 489 c’è understanding invece di understatement, e nella nota al Capitolo II a pag. 490 è evidente che chi scrive non ha la minima idea di cosa sia l’alta borghesia, e nel resto delle note Elton si trasforma in Elliot. Abbiamo poi a pag. 406 cinquecento contro una invece di una contro cinquecento e a pag. 414 c’è un le invece di lei. Ma la croce del testo sono i composti del verbo fare, per i quali si esibiscono un soddisfi a pag. 47, un soddisferanno a pag. 76, un soddisfino a pag. 150 e un soddisferà a pag. 302, accanto agli ottimi soddisfece a pag. 192, soddisfacesse a pag. 257 e soddisfattissimo a pag. 305.
E senza togliere niente a Jane Austen insisto che questa traduzione, forse di Anna Luisa Zazo, è veramente stupenda nel rendere i diversi modi di parlare dei personaggi.




La tenerezza ha secondi che battono più lentamente degli altri. (Romain Gary, Mio caro pitone)

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