sabato 20 ottobre 2012

Maurizio Ferraris


Maurizio Ferraris, Persi in un vuoto di memoria. (Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2010 - N. 86)

Non ci piace occuparci di quello che scrivono i giornali ma di tanto in tanto, come è già successo per Anthony Trollope, non ci si può astenere.
Anche perché l’argomento in questione, indipendentemente dalle sue vicende giornalistiche, tutto sommato merita lo spazio di qualche piccola riflessione.
I grandissimi e rapidissimi cambiamenti verificatisi nel mondo negli ultimi decenni hanno generato il nuovo sport intellettuale (si fa per dire) del catastrofismo spettacolare a buon mercato (spettacolare nel senso di Guy Débord), che si sviluppa facilmente nei campi da gioco del commentismo giornalistico dove, almeno in Italia, la superficialità e la scarsa attenzione dei giocatori trovano un perfetto riscontro nella superficialità e nella disattenzione degli spettatori. Ovviamente con il risultato che alla fine tutti sono più che soddisfatti dei propri acumi critici. Come era soddisfatto l’amico che mi aveva portato l’articolo in questione (io non compro giornali), e che c’era cascato malgrado sia tutt’altro che uno sprovveduto.
D’altra parte in Anna Karenina Tolstoj ci dice che nessuno è contento del suo patrimonio e ognuno è contento della sua mente. E quindi perché non congratularsi reciprocamente per le proprie brillanti e originali pensate, quando da una parte si porta a casa uno stipendio e dall’altra con pochi soldi e poca fatica ci si può sentire, grazie al supplemento di un quotidiano che come una Messa accompagna ogni sacrosanta domenica, persone di profonda cultura dedite alla critica sociale e alla riflessione storica.
Per dare un’idea della profondità della critica storico-sociale di questo articolo, basterà osservare che in esso si afferma che il sapere, la ricchezza, il potere, oltre che tutte (sic) le forme di rapporto sociale richiedono delle registrazioni, il che spiega il motivo per cui la scrittura compare così presto nella storia dell’umanità.
Innanzitutto, l’Homo Sapiens ha cominciato ad aggirarsi per il pianeta cacciando e raccogliendo almeno 130.000 anni fa, e la scrittura Vinča compare tra 5400 e 4000 anni fa, che non mi sembra esattamente così presto. Inoltre, se tutte (sempre sic) le forme di rapporto sociale richiedono delle registrazioni, si deduce che secondo questo articolo, presso le popolazioni che non conoscono la scrittura non esiste alcuna forma di rapporto sociale. Ora, tra le popolazioni che non conoscono la scrittura si possono annoverare non solo i primitivi della foresta amazzonica e tutte le altre popolazioni delle cui complesse strutture di rapporti sociali ci hanno parlato antropologi evidentemente male informati o visionari come Claude Lévi-Strauss, ma anche i greci dell’epoca dei poemi omerici. Per non dire poi delle stravaganze dei bestiologi, che sostengono l’esistenza di forme di rapporto sociale addirittura tra le scimmie bonobo, che non solo non sanno scrivere, ma non possiedono nemmeno la facoltà del linguaggio.
Non basta. In questo articolo si sostiene che prima che la storia abbia avuto inizio con la scrittura, non abbiamo un solo nome proprio, quindi nessun individuo in senso proprio. C’è quindi da domandarsi in che razza di caos si doveva vivere prima dell’invenzione della scrittura, che la gente non poteva nemmeno chiamasi per nome. E anche dopo, che di gente che sapeva scrivere non è che ce ne doveva essere in giro molta. Anche qui in Italia cent’anni fa, quindi quando c’era già non solo la scrittura ma anche la tipografia a caratteri mobili, se non mi sbaglio c’erano due analfabeti su tre. Ma Omero benché vivesse in un’epoca di assai scarsa scrittura, diciamo 700 a.C., il nome proprio ce l’aveva e come e continuerà ad avercelo ancora per un bel pezzo, anche quando i nomi di parecchi giornalisti saranno stati dimenticati, così come avevano un nome gli Dei se non vogliamo sostenere che il nome gliel’avesse inventato lui scrivendo sul papiro o più probabilmente dettando a uno dei pochi che sapevano scrivere, e così come hanno un nome proprio e danno nomi ai loro popoli e ai loro luoghi i primitivi di cui ci parlano nei loro libri gli antropologi francesi. Che anzi a volte considerano (i primitivi, non gli antropologi) sacro o magico il loro nome vero, e permettono che venga pronunciato solo un nome secondario
Ma anche a non voler fare troppo il saputello e quindi senza tirare in ballo Lévi-Strauss e quel tot di nomi propri di personaggi mitologici che si possono trovare in Il crudo e il cotto per non parlare poi di Taperahi, capo kawahib di cui c’è tanto di foto in Tristi Tropici, con anche tanto di foto della sua moglie principale Kunhatsin, che non si sa mai, magari il nome ce l’hanno solo da quando Lévi-Strauss l’ha scritto, anche a lasciar perdere queste cose che per saperle bisogna fare la fatica di leggere qualche libro io mi dico, uno l’avrà pur visto qualche film western o gli sarà ben capitato di sentir parlare di Toro Seduto o di Nuvola Rossa e soprattutto di Geronimo o di Kociss che se non mi sbaglio si chiamano così i figli dell’onorevole La Russa, già ministro della Difesa, e dovrebbe sapere quindi che i pellerossi non avevano la scrittura ma il nome proprio ce l’avevano lo stesso.  
D’altra parte si può vedere in ciò un errore tutto sommato perdonabile perché Walter Ong (che peraltro varrebbe la pena di leggere se si vuol dire la propria su questi temi) in Oralità e scrittura fa rilevare che la consapevolezza che il linguaggio non consista essenzialmente nel linguaggio scritto è piuttosto recente. Ma comincia comunque con il lavoro di Ferdinand de Saussure (1857 - 1913) e quindi varrebbe la pena di aggiornarsi. Aggiornamento certamente non indispensabile per godersi la letteratura, ma opportuno se si decide di scrivere su questi argomenti.
Per non farla troppo lunga, passo a dire che l’articolo (di cui poi il mio amico mi ha mandato la reperibilità in rete e quindi chi lo vuol leggere può andare a questo link, che guarda un po', dopo più di due anni non si è ancora perso) segnala la fragilità dei supporti digitali attualmente impiegati per la conservazione dei documenti e soprattutto del cosiddetto cloud computing o salvataggio in rete affidato ai server di gestori privati, che possono anche fallire. Paventando così la possibile catastrofe della perdita totale di documentazioni sul XXI secolo.
E ci fa osservare che le imprese private generalmente durano meno degli stati anche se, come i banchieri rinascimentali, possono essere più potenti. Cosa resta delle grandi compagnie telefoniche di mezzo secolo fa, si domanda l’articolo. Domanda alla quale non è difficile rispondere che delle grandi compagnie telefoniche resta più o meno quello che resta dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, che notoriamente non era un’impresa privata.
L’articolo dice anche che se le opere di Aristotele fossero state conservate su cd non ci sarebbero mai arrivate, ed è qui che secondo me casca la zebra (lo so che a cascare dovrebbe essere l’asino, ma non vorrei che nella mia scelta di questo modo di dire qualcuno potesse ravvisare una sfumatura sarcastica).
Cioè l’articolo incorre in una particolare forma di pensiero di nuovo tipo, segnalata tra gli altri da Marc Augé (uno di quegli sprovveduti antropologi francesi che credono di vedere rapporti sociali in popolazioni che non conoscono la scrittura) in Che fine ha fatto il futuro?, che consiste nella convinzione che quello che è adesso, sarà sempre così come è adesso. E fa un certo effetto, dover constatare che la perdita della visione di un futuro in cambiamento si verifica proprio nella nostra epoca, in cui tutto continua a cambiare con grande rapidità.
Cioè innanzitutto ci si dimentica di quanta roba non è arrivata fino a noi a causa dell’incendio della biblioteca di Alessandria.
In secondo luogo non si tiene presente che, viste tutte le novità appunto degli ultimi decenni, non ci sarebbe da stupirsi se la settimana prossima fosse inventato un sistema di registrazione tale da conservare per l’eternità tutto quello che c’è adesso di scritto di suonato di fotografato e di filmato sul nostro povero pianeta in un volume di un millimetro cubo, e se nel giro di due mesi il cubetto diventasse parte degli orecchini e dei portachiavi più diffusi del mondo, continuamente aggiornabile con un collegamento Internet di dieci secondi. E se si fabbrica il cubetto, si potrebbe anche fabbricare una pallina utilizzabile per il piercing linguale, e che spasso se poi qualcuno inventa un sistema biochimico di trasferimento d’informazione attraverso la saliva, e con un bacio ci potremo trasmettere non solo le emozioni (come diceva Senofonte  Efesio in Abrocome e Anzia) e le malattie ma anche ogni genere di conoscenze.
Ma anche senza darsi alla fantascienza, bisogna purtroppo rilevare che negli atri muscosi e nei fori cadenti del giornalismo nazionale l’IT evidentemente è ancor meno praticata dell’antropologia e della storia della letteratura.
Cioè nel mio MacBook, il cui adorabile candore mi era costato solo 902 euro, c’è un’applicazione cioè un software che si chiama Time Machine che una volta attivata provvede da sola a fare ogni ora un backup di tutto il lavoro, e se non basta la memoria dell’hard disk del computer scarica tutto in un volume indipendente, e adesso un hard disk da 1 tera, cioè 1000 GB (informazione per i giornalisti, non per il comune lettore di blog che lo sa già), occupa più o meno lo spazio di un libro (un libro tipo Einaudi ET, non un volume della Treccani, e quanti ce ne possono stare in un appartamento qualsiasi?), e io credevo che questo software fosse un privilegio del popolo di Steve Jobs, ma una delle mie amanti mi ha assicurato che il backup quotidiano automatico lo fanno con Windows anche dove lavora lei e con ogni probabilità in tutti gli uffici del mondo.
Ed è appunto questo il problema. Come diceva il mio professore di greco al liceo, il grande Dino De Castro, in generale quella che va perduta è la roba di minor conto. Cioè per l’appunto le opere di Aristotele sono arrivate fino a noi malgrado il disastro dell’incendio di Alessandria. Ma questo il professore lo diceva negli anni Sessanta, e da allora tutto è cambiato.
Il rischio quindi secondo me non è che si vada verso una perdita della memoria storica e documentale del XXI secolo per improvvisa scomparsa di documenti informatici di cui ci sono innumerevoli copie. Il problema è lo stesso delle fotografie, di cui peraltro parla l’articolo: fino a pochi anni fa le foto erano cose delicate e preziose che si conservavano con cura, mentre adesso ognuno documenta le irrilevanze della propria esistenza quotidiana con centinaia di immagini (soprattutto dei bambini, che vengono seguiti nel loro sviluppo di settimana in settimana, e adesso c’è anche la macchina fotografica per cani e gatti, che può documentare tutto ciò che vedono i nostri cari animali) di cui ha copie nel pc, nei pen drive (o flash drive o chiavette), oltre a quelle abominevoli cornici elettroniche che inesorabilmente sfarfallano facce scenette e paesaggi giorno e notte, e con le fotografie e il resto probabilmente arriverà ai posteri non una selezione ma la totalità della roba e della robaccia che viene scritta filmata suonata e trasmessa dalla televisione, e i poveretti che nel futuro cercheranno di costruirsi un’idea di questo secolo faranno la loro bella fatica a tirar fuori ciò che vale qualcosa nell’immensa produzione e conservazione di porcherie di questi decenni.
Ancora una volta, non si può non tirare in ballo la profondità del pensiero di René Girard che in La violenza e il Sacro, mostra come uno dei più gravi problemi della nostra epoca sia la perdita delle differenze: e la proliferazione inarrestabile delle documentazioni informatiche è sicuramente uno dei più formidabili mezzi di sdifferenziazione della storia dell’umanità.
E se l’articolo si preoccupa per i documenti cartacei che vanno a finire nella raccolta differenziata, si può ribattere che forse l’uso del supporto cartaceo è rimasto l’unica possibilità di distruzione dei documenti storici inutili, e che abbiamo un bel buttar via, ma tutta la pubblicità che ci ritroviamo tutti i giorni nella casella della posta ha probabilmente delle copie informatiche che sarà tutt’altro che facile distruggere.
E comunque anche a questo proposito c’è l’altra faccia della medaglia, cioè quante copie c’erano pochi anni fa del Napoléon di Abel Gance e quante ce ne sono adesso, scaricate negli hard disk domestici grazie ai software di condivisione? Quanto vecchio cinema sarà salvato in questo modo dai possibili incendi della delicatissime pellicole di celluloide?
Che se poi i posteri decideranno di sbatter via tutto e di ricominciare da capo, o meglio da quello che sarà rimasto di epoche precedenti, forse non sarà un gran male. Siamo riusciti ad arrivare fin qui facendo a meno dei dinosauri e del dodo, quelli che ci seguiranno magari dovranno fare a meno dell’hip-hop e dei Baustelle, ma si potranno consolare con Bach e Jelly Roll Morton e i Rolling Stones e i Sex Pistols, e magari dovranno fare a meno di Paolo Giordano e di Stieg Larsson e della raccolta dei supplementi domenicali del «Sole 24 Ore» ma gli resterà pur sempre Dante, Shakespeare, Giacomo Leopardi e la Jane Austen e probabilmente anche Raymond Carver e Richard Yates. (blifil)

Tra la riga 17 e la riga 19 della terza colonna c’è un pastrugnetto di parentesi, che data la sempre più vasta generalizzazione della cura per il proprio lavoro è rimasto tale e quale anche nella versione Internet.




La strada della banalità è lunga. (Murakami Haruki, Nel segno della pecora)

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